Statua di Confucio. Hunan, Cina. Foto di Rob Web (www.flickr.com/photos/rob_web). Licenza BY-NC-ND 2.0.

Indice

Il contesto storico

La storia più antica della Cina è legata a tre dinastie. La dinastia Xia, risalente al terzo millennio a.C. e fondata dal re Yum ha caratteri più mitici che storici; le conferme archeologiche della sua esistenza sono scarse e incerte. Maggiori testimonianze si hanno della successiva dinastia Shang, fondata dal re Tang nel XVII secolo a. C., che sviluppò già un sistema di scrittura, tecniche avanzate di lavorazione del bronzo e una organizzazione politica centralizzata che regnava su gran parte della Cina settentrionale. Fondamentale fu la terza dinastia, quella Zhou, che nell’XI secolo a.C. travolse la dinastia Shang e regnò sulla Cina fino al III secolo a.C.: un lungo periodo nel quale occorre distinguere due fasi, quella della dinastia Zhou occidentale, durante la quale si instaura un sistema feudale in cui, come in ogni sistema feudale, l’autorità e il potere del re sono costantemente minacciati dai grandi feudatari ed occorre cercare un difficile e delicato equilibrio, e quella della dinastia Zhou orientale, durante la quale questo equilibrio viene a mancare e lo stato sprofonda gradualmente nel caos. Nel Periodo delle primavere e degli autunni (dal 722 a.C. al 481 a.C) emergono una serie di stati egemoni in tensione tra di loro. Nel successivo Periodo degli Stati Combattenti (dal 453 a.C. al 221 a.C.) questa tensione sfocia in una vera guerra, che vedrà vincitrice lo stato di Qin. Nonostante la decadenza della dinastia Zhou, il Periodo delle primavere e degli autunni è un’epoca di grande fioritura intellettuale,che vede la nascita delle cosiddette Cento scuole di pensiero, che si svilupperanno nel Periodo degli Stati Combattenti. Non furono proprio cento scuole, ma una varietà di posizioni filosofiche che gettano le basi di tutto il pensiero cinese. Al centro vi sono il Taoismo ed il pensiero di Confucio.

“Io trasmetto e non creo”

Kongzi (Maestro Kong), noto in Occidente con il nome latinizzato Confucio è stato riconosciuto fino all’avvento del comunismo come il maestro per antonomasia, colui che ha elaborato un ideale di vita ed un sistema di valori che hanno forgiato il carattere del popolo cinese e dato forma alla sua civiltà. Vissuto secondo le fonti tra 551 e il 479 avanti Cristo, nacque nello stato di Lu da una famiglia di nobili origini ma ormai decaduta e povera, appartenente al ceto degli shi, gentiluomini impiegati come funzionari. Il padre morì quando aveva tre anni, la madre quando era ragazzo; in giovinezza oltre allo studio dovette dedicarsi ad attività lavorative per sostenere la famiglia. Nei Dialoghi riferisce di questa esperienza con rammarico: “Da bambino vissi umilmente, sì da acquisire manualità in umili mestieri. Un uomo nobile di animo ha tanta manualità? Affatto” (Dialoghi, 9.6; trad. Lippiello). 1

La riflessione di Confucio si pone consapevolmente come una risposta alla crisi del suo tempo che intende riscoprire i valori antichi rivitalizzandoli. Non si pone come un innovatore, ma come colui che preserva e tramanda. Nei Dialoghi afferma: “Io trasmetto e non creo. Confido negli antichi e li amo” (7.6; trad. Masi, p. 67).1Dopo aver acquisito una notevole padronanza delle norme rituali e della cultura classica, ottenne diversi incarichi amministrativi, giungendo ad essere primo ministro del regno di Lu, carica dalla quale però si dimise improvvisamente, dando inizio a una serie di peregrinazioni presso i vari regni, seguito dai suoi discepoli. Tra questi, tre gli furono particolarmente cari, e sono spesso nominati nei Dialoghi: Zigong, Zilu e Yan Hui.

Quest’ultimo soprattutto gli fu molto caro, e la sua morte premature lo gettò nello sconforto. Morì dopo aver fatto ritorno nello stato di Lu, circondato da un vasto numero di discepoli. Così nei Dialoghi sintetizza la sua esperienza di vita:

Il Maestro disse: “A quindici anni ero dedito allo studio, a trenta ero saldo [nell’osservanza delle norme rituali], a quaranta non avevo più dubbi, a cinquanta compresi il decreto celeste, a sessanta sapevo ascoltare e a settanta seguivo gli impulsi del mio cuore senza incorrere in trasgressioni”. (Dialoghi, 2.4; trad. Lippiello)

Confucio non ha scritto nulla, ma al suo insegnamento sono riconducibili i cosiddetti Quattro classici: Il Grande studio, L’invariabile mezzo, il Mencio (che riporta il pensiero del filosofo omonimo, seguace di Confucio) e i Dialoghi. Questi ultimi, noti anche come Analecta (il titolo cinese è Lun Yü) sono l’opera fondamentale del confucianesimo e la fonte principale per la conoscenza del suo pensiero. Si tratta di una raccolta, avviata dai suoi primi discepoli ma compilata solo molto tempo dopo (il testo pervenuto è del secondo secolo avanti Cristo), di detti, giudizi, opinioni di Confucio e dei suoi discepoli, nei quali è difficile distinguere le sue parole autentiche dalle aggiunte posteriori. 2

Aspetti del pensiero di Confucio

L’essere umano, la realtà sociale e lo Stato sono al centro dell’insegnamento di Confucio; la sua preoccupazione è affrontare la crisi del suo tempo rettificando sia la vita individuale che quella collettiva. Benché il confucianesimo sia considerato a tutti gli effetti una religione, Confucio non si presenta come un personaggio divino, né le sue parole hanno il carattere di una rivelazione; evita perfino di fare riferimento a divinità nei suoi discorsi. Si mostra invece come un uomo alla ricerca della saggezza, che interroga e si interroga, e che giunge ad alcune conclusioni che appaiono semplici ma al tempo stesso sono eccezionalmente feconde. Il suo atteggiamento umanistico è evidente da questo dialogo:

Chi Lu (Tsŭ Lu) chiese intorno al modo di servire gli spiriti. Il Maestro disse: "Se non si può ancora servire gli uomini, come si potrà servire gli spiriti?" "Mi è lecito interrogarvi intorno alla morte?" Disse: "Se non si conosce ancora la vita, come si potrà conoscere la morte?" (Dialoghi, XI, 11; trad. Castellani)

Confucio non cerca di raggiungere una conoscenza sulle cose ultime, l'origine del mondo o la natura degli dèi. Il suo campo di indagine è la condotta umana, esattamente come per Socrate in Grecia. Colpisce anche, nei Dialoghi, la sua umiltà, il presentarsi come una persona alla ricerca della conoscenza e della saggezza, più che un Maestro che l'abbia ottenuta e sia in grado di insegnarla ad altri.

La semplicità del pensiero di Confucio non deve trarre in inganno. Non si tratta di un pensatore che ha poche idee perché non è riuscito a sviluppare una complessa filosofia. Al contrario. C'è in lui un rifiuto programmatico delle teorie. In un passo importante dei Dialoghi (9.4), la creazione di teorie è messa sullo stesso piano di cose dalle quali rifuggiva, come l'egoismo e l'inflessibilità. Il filosofo François Jullien ha evidenziato questo aspetto della saggezza confuciana. Il saggio, scrive, "è senza idee perché non ne privilegia alcuna (e, di conseguenza, non ne esclude alcuna) e affronta il mondo senza portare su di esso alcuna visione preconcetta; quindi del mondo non limita niente, per intrusione di un punto di vista personale, ma ne conserva sempre aperte tutte le possibilità" (Jullien 2002, p.13). Dietro il rifiuto di una teoria c'è il riconoscimento della complessità e della mutevolezza della realtà, che non può essere ridotta ad un quadro concettuale stabile e immutabile. Quello di Confucio vuole essere un pensiero in situazione, che si adatta alle circostanze e cerca di cogliere il cambiamento e l'evolversi dei fenomeni.

L’uomo nobile e l’uomo volgare

Consapevole che l’essere umano realizza pienamente le sue potenzialità solo attraverso lo studio, l’educazione e la cultura, Confucio elabora l’ideale dell’uomo nobile, contrapposto all’uomo volgare, le cui qualità principale sono la benevolenza (ren) e il rispetto scrupoloso dei rituali che scandiscono la vita individuale e collettiva (li). Finalizzati in origine a regolare i rapporti con gli dei (e in questo senso sono affini alle celebrazioni religiose), i li (禮) investono però anche la sfera sociale e civile, costituendo un complesso sistema di convenzioni e di pratiche, accompagnate anche da musica, che rendono solenni i rapporti sociali e mantengono le gerarchie sociali.

Confucio impiega il termine e il concetto di junzi [君子], uomo nobile, utilizzato al suo tempo per indicare una persona appartenente all’aristocrazia, ma ne dà una nuova interpretazione. Alcuni commentatori sostengono che la distinzione tra il gentiluomo e la persona meschina (xiaoren 小人) debba essere intesa in termini di classe sociale, poiché xiaoren è spesso usato nei testi Han per indicare semplicemente la “gente comune”. È chiaro, tuttavia, che Confucio riteneva che chiunque, di qualunque classe sociale, avesse la potenzialità di diventare un gentiluomo, indipendentemente dalle sue origini. È evidente che, almeno nei Dialoghi, la distinzione gentiluomo/xiaoren si riferisce al carattere morale più che alla condizione sociale.

L'uomo nobile è caratterizzato dall'ampiezza dello sguardo. “L’uomo nobile di animo è di ampie vedute e imparziale; l’uomo dappoco è limitato e parziale.” (Dialoghi, 2.14; trad. Lippiello). Questa differenza di sguardo porta a una diversa prospettiva morale. L'uomo volgare, avendo uno sguardo limitato, mette sé stesso al centro; per questo non è capace di giustizia, ma in ogni cosa cerca il proprio profitto personale. Non riuscendo a distaccarsi da sé, non è in grado di valutare una situazione con equanimità, una condizione senza la quale la giustizia non è possibile. L'uomo nobile è dunque giusto, leale, imparziale. Non si tratta di un saggio chiuso nella meditazione o nella perfezione di sé; può anche occuparsi di affari, ma conducendoli con lo stesso senso di giustizia, senza cercare guadagni indebiti. È un uomo che osserva con chiarezza, che ascolta e si mostra cordiale nei rapporti con l'altro; anche nei momenti d'ira pensa alle conseguenze (Dialoghi, 16.10; trad. Lippiello). Un ultimo punto significativo, legato come abbiamo visto alla biografia di Confucio, è che l'uomo nobile "non è un utensile" (Dialoghi, 16.10; trad. Lippiello). Il termine usato, qi, indica alla lettera un vassoio rituale o uno strumento progettato per assolvere una particolare funzione, è usato anche metaforicamente per riferirsi a persone specializzate in un compito particolare. Benché il concetto di uomo nobile non sia legato, come si è detto, alla classe sociale, c'è un innegabile elemento di classe in questo disconoscimento del valore delle attività manuali e delle professioni considerate servili.

Lo studio e l'educazione

L'uomo nobile non è tale dunque per nascita. Le qualità morali e intellettuali che consentono di raggiungere la condizione di uomo nobile possono essere ottenute solo con una continua applicazione e con uno studio che non va inteso in modo mnemonico, ma come cura di sé stessi attraverso un processo costante di autoperfezionamento. Nei Dialoghi si legge:

Il Maestro disse: “Quando l’inclinazione naturale prevale sull’educazione, l’uomo è incivile; quando invece l’educazione prevale sull’inclinazione naturale egli è pedante. È solo l’armoniosa combinazione di entrambe che lo rende nobile di animo” (Dialoghi, 6.18; trad. Lippiello)

L'essere umano si realizza pienamente in un delicato equilibrio tra natura e cultura. Lo studio è una pratica costante, che lo accompagna per tutta la vita, e che va distinta accuratamente dalla semplice erudizione. "Studiare senza riflettere è vano, riflettere senza studiare è pericoloso.” (Dialoghi, 2.15; trad. Lippiello)". In un passo dei Dialoghi che fa pensare a Socrate, Confucio afferma il valore formativo della stessa consapevolezza di non sapere:

Il Maestro disse: “You, ti insegnerò che cos’è la sapienza. Quel che sai, riconosci di saperlo. Quel che non sai, riconosci di non saperlo. Ecco la sapienza.” (Dialoghi, 2.17; trad. Masi)

Quali sono i contenuti di questo studio? Ci sono indubbiamente elementi culturali ed intellettuali, come la considerazione degli eventi del passato e la conoscenza e pratica approfondita dei riti. Ma c'è anche la conoscenza di sé e degli altri, per raggiungere l’eccellenza umana. In questo senso lo studio è una pratica sociale: è insieme ad altri che si comprende il modo migliore di essere umani. Confucio appare, anche in questo non diversamente da Socrate, costantemente impegnato a discutere con alti di ciò che è più adatto ad un essere umano. Anche le relazioni sono concepite da Confucio in un'ottica di autoeducazione e perfezionamento di sé. In un passo suggestivo dei Dialoghi, sostiene di ritenere la presenza dell'altro sempre educativa: potremo migliorarsi considerando i pregi degli uni, e cercando di farli nostri, e i difetti degli altri, sforzandoci di evitarli.

Il ren

Il ren è il punto più alto dell'etica confuciana, uno dei valori fondanti della civiltà cinese. Il termine ren [仁] viene reso nelle traduzioni italiane con benevolenza o con reciprocità, mentre in inglese si usa spesso humanity. L'espressione più nota del principio è un passaggio del dodicesimo capitolo dei Dialoghi: "Ciò che tu stesso non vuoi, non lo fare agli altri (XII, 2)". Si tratta della regola aurea, di cui è nota in Occidente la formulazione del Vangelo (meno nota quella di rabbi Hillel). Il ren è fondato sulla reciprocità, sul riconoscimento che l'altro è come me stesso. Legati ad esso sono i valori della sincerità e della lealtà. La mancanza di sincerità in un uomo è paragonata ad un carro privo di giogo (II, 22), ad indicare l'assoluta mancanza di direzione morale di una persona insincera.

Rapporti famigliari

Un aspetto dell’insegnamento di Confucio sul quale ha insistito la tradizione successiva, e che ha avuto una influenza immensa sulla evoluzione della società cinese, è la sua concezione della famiglia e in particolare del rispetto dovuto dai figli ai genitori. Nella visione confuciana, la società si regge su una serie di rapporti gerarchici, i più importanti dei quali sono il rapporto tra genitori e figli e tra re e sudditi. La venerazione dei figli nei confronti dei genitori, la loro disponibilità assoluta a prendersi cura di loro, sono la base della società. Confucio ammette che i figli possano riprendere i genitori, ma in modo lieve e rispettoso, essendo in ogni caso disposti anche a subire punizioni senza serbare rancore (Dialoghi, IV, 18). La solidarietà all'interno della famiglia prevale anche su altri valori. In un dialogo interessante il duca di She vanta della gente del suo paese, in cui i padri denunciano i figli se questi rubano una pecora. Confucio non approva: la vera rettitudine è quando il padre copre il figlio e il figlio copre il padre (Dialoghi, XIII, 18).

La rettifica dei nomi

La stabilità dello Stato è legata da un lato al rispetto dei ruoli e dei rituali all'interno della società, dall'altra dall'esercizio, da parte di chi governa, delle qualità morali, prima fra tutte il ren. Ma Confucio attribuisce una importanza particolare anche alla rettifica dei nomi. Esiste un rapporto necessario tra i nomi e le cose che indicano. Per questa ragione una confusione nell'uso dei nomi non riguarda solo il linguaggio, ma la realtà stessa. In una società minacciata dal disordine, come quella in cui vive Confucio, diventa dunque un compito urgente quello di rimettere a posto i nomi. In un passo dei Dialoghi (XIII, 3) la confusione nell'uso dei nomi è il primo anello di una catena che genera il caos sociale: dalla confusione dei nomi derivano la trascuratezza dei riti, l'arbitrarietà delle pene e dei castighi e il conseguente disorientamento del popolo. Rettificare i nomi vuol dire fare in modo che vi sia una corrispondenza precisa tra il nome e ciò che esso indica. Per comprendere a fondo l’idea, occorre considerare anche la particolarità della lingua cinese, che è scritta in ideogrammi che rimandano alla forma degli oggetti. Come si può chiamare vaso angolare, si chiede Confucio (Dialoghi, VI, 23), un vaso che non ha angoli? La portata della rettifica dei nomi è evidente se dal piano degli oggetti quotidiani si passa a quello dei ruoli sociali. Ristabilire il significato originario di ogni parola vuol dire attribuire ad ognuno un ruolo preciso nel grande sistema della società, facendo della società un unico grande discorso con un significato univoco ed inequivoco.

L’invariabile mezzo

Tra i concetti fondamentali del confucianesimo c'è quello di invariabile mezzo, che è il titolo di uno dei quattro classici confuciani (Zhongyong). L’espressione è spesso tradotta in italiano con giusto mezzo, con un evidente riferimento alla dottrina di Aristotele. Si tratta di uno dei casi in cui il confronto tra filosofie appartenenti a mondi culturali diversi porta a fraintendimenti. Come ha osservato François Jullien, c’è una differenza profonda tra il giusto mezzo aristotelico e la posizione confuciana. Nel primo caso, si cerca si collocare la propria azione tra due estremi, evitando sia l'uno che l'altro e seguendo la via della moderazione. Nel confucianesimo, invece, i due estremi sono ugualmente possibili, ed è in questa possibilità di entrambi che consiste il mezzo. Il saggio non è, ad esempio, colui che cerca di evitare sia la gioia che il dolore, sperimentando una emotività per così dire neutra. Al contrario: vive sia la gioia che il dolore, in momenti diversi, senza però stabilirsi né nell’una né nell'altra. Si tratta, afferma Jullien, “di dispiegare il reale in tutte le sue possibilità”(Il saggio è senza idee, p. 24). Lo stesso vale anche sul piano delle idee. Essendo libero da qualsiasi posizione ideale preconcetta, il saggio può muoversi liberamente da una convinzione a quella ad essa opposta, senza sentirsi vincolato e adattando la sua posizione alla situazione.

I riti

I riti sono l’aspetto del pensiero confuciano più lontano dalla sensibilità attuale. Siamo abituati a praticare riti sia religiosi che laici sono nelle particolari situazioni delle cerimonie; nel contesto di Confucio invece i riti e la musica rituale che l’accompagna investono tutta la vita sociale e sono in connessione con il ren. Attraverso il rituale il rispetto per l’altro ottiene una forma anche esteriore: i riti armonizzano le relazioni, portando ovunque un senso di armonia e di forma estetica. Anche qui prevale l’umanesimo di Confucio: come osserva Anne Cheng, il pensatore cinese porta i riti dal campo delle relazioni con il sovrannaturale a quello dei rapporti umani, senza però che essi perdano di sacralità; “di fatto si ha uno spostamento del sacro dall'ambito propriamente religioso alla sfera dell'umano” (Storia del pensiero cinese, vol. 1, p. 60).

Bibliografia essenziale

Testi

Dialoghi, a cura di Tiziana Lippiello, Einaudi, Torino 2006.

I Dialoghi, a cura di Edoarda Masi, BIT, Milano 1996.

Analects, Hackett, translated by Edward Slingerland, Indianapolis/Cambridge 2003.

Testi confuciani, traduzione di Fausto Tomassini, UTET, Torino 1974.

Studi

Arena, L. Vittorio, La filosofia cinese. Da Confucio a Mao Tse-Tung, Rizzoli, Milano 2000.

Bo Mou (ed)., History of chinese philosophy, Routledge, Abingdon-New York 2009.

Bruce Brooks, E., Taeko Brooks A., The Originals Analects. Sayings of Confucius and His Successors, Columbia University Press, New York 1998.

Cheng, Anne, Storia del pensiero cinese, tr. it., Einaudi, Torino 2000, 2 voll.

Confucio Cheng, Annping, Confucio. Una vita di pensiero e di politica, tr. it., Laterza, Roma-Bari 2008.

Fun-Yu Lan, A history of chinese philosophy, Princeton University Press, Princeton 1952.

Lippiello, Tiziana, Il confucianesimo, il Mulino, Bologna 2010.

Granet, Marcel, Il pensiero cinese, tr. it., Adelphi, Milano 2019 (edizione digitale).

Jullien, François, Il saggio è senza idee o l’altro della filosofia, tr. it., Einaudi, Torino 2002.

Testi

Personalità di Confucio
L'uomo nobile
Lo studio e l'educazione
Il ren
Rapporti famigliari

1 Le traduzioni di Confucio, come per altri testi cinesi, divergono in modo anche profondo. Si è preferito adoperare, a seconda delle circostanze, le traduzione di Tiziana Lippiello, di Edoarda Masi e di Alberto Castellani (si veda la Bibliografia).
2 E. Bruce Brooks e A. Taeko Brooks hanno curato una edizione dei Dialoghi in cui distinguono i testi più antichi, che riportano affermazioni riconducibili a Confucio, da quelli che si sono aggiunti nel tempo, riconducibili ai suoi seguaci. Cfr. la Bibliografia.

Testo di Antonio Vigilante. Licenza CC BY-SA 4.0 International.