Cosa rende bella un’opera d’arte?

Introduzione
Almeno due concetti sono immediatamente coinvolti in qualsiasi tentativo di risposta alla domanda “Cosa rende bella un’opera d’arte?”. Si tratta del concetto di bellezza, parola chiave dell’estetica occidentale, e del concetto di arte, uno dei temi più dibattuti dell’estetica filosofica contemporanea. Data la discussione ancora in corso su queste due nozioni e la natura sintetica della nostra indagine su entrambi gli argomenti, è ragionevole pensare che, in linea di principio, ci possano essere diverse risposte possibili a queste domande. Quella che segue è più una riflessione provvisoria che conclusiva. Poiché il capitolo 2 è dedicato alla definizione di opera d’arte e il capitolo 6 alla bellezza naturale, per evitare sovrapposizioni questo capitolo sospende la discussione della nozione di “opera d'arte” in generale e non si occupa principalmente della discussione della “bellezza in natura/bellezza naturale”. Infine, per motivi di chiarezza, può essere plausibile spostare il focus dalla domanda “cosa rende bella un’opera d'arte?” a un’indagine sulla “bellezza artistica”.
Prima di intraprendere questa indagine sulla “bellezza artistica” ci si presenta una sfida assiologica immediata: quanto conta ancora il “bello” per l’arte e le opere d’arte dopo che i movimenti artistici moderni e contemporanei (soprattutto le avanguardie) hanno trasformato non solo la nostra concezione dell’arte, ma anche la sua realtà? Se essere belli o meno non è più una preoccupazione essenziale per la creazione artistica, perché ci preoccupiamo ancora di “cosa rende bella un’opera d’arte?”. Inoltre, nell’ambito dell’estetica filosofica, a partire dagli anni Ottanta si è sviluppato il cosiddetto “movimento anti-estetico”, che critica pesantemente il tradizionale discorso occidentale sull’estetica e il suo sostenere la bellezza come questione fondamentale. Nessuna delle recenti tendenze influenti negli studi di estetica filosofica si concentra sulla “bellezza artistica” 1 — anche se ultimamente si assiste a un rinnovato interesse per la bellezza. 2 Trovo che non ci sia una risposta soddisfacente a questa sfida. Tuttavia, storicamente parlando, molti filosofi e artisti influenti hanno considerato l’estetica come la stessa filosofia dell’arte e hanno concepito l’arte come la più alta incarnazione della bellezza. Credo che, nonostante il fatto che la bellezza artistica non sia più l’argomento centrale dell’estetica e della filosofia dell’arte, essa svolga comunque un ruolo significativo nelle nostre esperienze quotidiane.
Guardare il Taj Mahal in lontananza al tramonto; passeggiare nei giardini di Stourhead in una limpida giornata autunnale; osservare il ritratto di Johanne Vermeer Ragazza con l'orecchino di perla (1665); dispiegare lentamente il rotolo Mille Li di fiumi e montagne dipinto da Wang Ximeng; 3 ascoltando l’Acqua che scorre suonata dal Guqin; assistere a una rappresentazione del balletto Il lago dei cigni; leggere la calligrafia Lantingji xu di Wang Xizhi;4 recitare le poesie di Yeats; guardare la reliquia della Venere di Milo al Louvre — sentiamo spesso le persone descrivere queste esperienze come “belle”. Perché troviamo belli questi oggetti creati dall’uomo — edifici, giardini, dipinti, musica, danze, poesie, sculture, ecc? Cosa contribuisce alla bellezza artistica? Di seguito passerò in rassegna alcuni pensieri influenti sulla bellezza artistica provenienti dalle tradizioni estetiche sia orientali che occidentali.
Filosofi e teorie influenti
Analogamente al termine greco mousikê (arte delle Muse), anche l’antica nozione cinese yue 乐 si riferisce a un insieme di arti musico-poetiche. La cosiddetta “cultura della canzone” — “una cultura in cui la poesia, la musica e la danza erano un mezzo importante per esprimere valori religiosi, politici, etici ed erotici” (Halliwell 2009) — era presente in entrambe le civiltà antiche. Forse non sorprende che alcune delle prime riflessioni sulla bellezza artistica provengano dalla musica. In Occidente, la scoperta della corrispondenza tra gli accordi musicali centrali e alcuni rapporti di numeri interi è attribuita a Pitagora di Samo (570-495 a.C. circa). La scuola pitagorica riteneva che la bellezza derivasse dall’armonia numerica esemplificata dalla musica, che si manifesta in modo pervasivo anche nell’universo. Particolari proporzioni matematiche, rapporti (ad esempio, il Rapporto Aureo)5 e forme (ad esempio, il cerchio) portano all’eccellenza estetica e rendono belle le cose — oggetti naturali o manufatti. Si dice che l’antico scultore greco Policleto (480/475-415 a.C. circa), presunto seguace della scuola pitagorica, abbia creato il famoso Doriforo sulla base di una formula matematica segreta. Gli storici dell’arte interpretano spesso questa scultura in termini del cosiddetto principio chiastico — un metodo per controbilanciare le parti in contrasto, in modo da formare un insieme proporzionato e simmetrico — e la considerano una perfetta illustrazione di un paradigma di bellezza maschile. In architettura, il famoso architetto romano Vitruvio (80-15 a.C.) nel suo De Architectura (I dieci libri sull’architettura), qualche secolo più tardi, sosteneva, in uno spirito simile a quello pitagorico, che la bellezza (venustas) di un edificio è prodotta dal “rispetto delle giuste proporzioni e della simmetria delle parti”, formando un insieme dall’aspetto gradevole (Vitruvio 1990, 29).
In Cina, analogamente all’indagine pitagorica, l’antico pensiero musicale enfatizzava l’armonia cosmica e l’unificazione delle diversità: “la musica è l’armonia del cielo e della terra”, “la musica promuove lo stesso sentimento d'amore attraverso modelli diversi’6. Tuttavia, la tradizione cinese definiva chiaramente la musica in termini di sentimenti umani. Il Libro della Musica sostiene che il suono, l’elemento della musica, nasce dal movimento della mente-cuore umana sensibile (xin) quando è influenzata dalle cose esterne,7 e la musica è quindi essenzialmente determinata da una reazione della mente-cuore alle cose esterne.8 Di conseguenza, si può dedurre che l’eccellenza estetica della musica nella prospettiva cinese antica non risiede semplicemente nella sua qualità formale. Nel suo Ippia Maggiore, nonostante “faccia appello alle opere d’arte come esempi di cose belle... in generale Platone (428-328 a.C. circa) conduce la sua indagine sulla bellezza a distanza dalla discussione sull’arte” (Pappas 2020). Ma alla luce della teoria delle Idee di Platone — il Bello è considerato un esempio canonico delle Idee eterne e immutabili che causano caratteristiche corrispondenti nelle cose concrete del mondo fenomenico — ciò che rende bella una cosa (sia essa un’opera d’arte o meno) è allora l’Idea del Bello o il Bello in sé.9 Inoltre, poiché le opere d’arte sono considerate come imitazione del mondo concreto, la bellezza artistica è due volte lontana dall’Idea del Bello o dal Bello in sé, ideale e originario. Il neoplatonico Plotino (204-270 ca.) afferma inoltre che tutte le cose sono belle per la presenza di Idee belle nel mondo intelligibile. Queste Idee belle sono intelligibili nel senso che sono comprese solo con mezzi intellettuali.10
Aristotele (384-322 a.C.) eredita la nozione di arte come mimesi ma, a differenza di Platone, non solo considera la bellezza come una proprietà reale delle cose — pensa infatti che il bello e l’essenza della bellezza, sia essa Idea o meno, siano “una cosa sola in modo non meramente accidentale”11 — ma anche che l’arte, come la poesia, rappresenti qualcosa di più universale (quindi in qualche misura più reale in senso platonico) del mondo reale di cui facciamo esperienza.12 Inoltre, considerando la bellezza “come in un certo senso una causa”, Aristotele ha posto le basi per la successiva concezione teleologica kantiana della bellezza in termini di nozione di finalità.13 Tuttavia Aristotele non si discosta troppo dalla tradizione pitagorica nell’attribuire la bellezza artistica alla giusta grandezza, all’ordine e alla proporzione. Scrive: “la bellezza è una questione di grandezza e di ordine” (Poetica, 1450b22); “la bellezza si realizza nel numero e nella grandezza, e lo stato che combina la grandezza con un buon ordine deve necessariamente essere il più bello” (Politica, 1326b3-5); “le principali forme di bellezza sono l’ordine e la simmetria e la definizione, che le scienze matematiche dimostrano in misura particolare” (Metafisica, 1078b6-1705). 14
Inoltre, Aristotele ritiene che nelle “opere d'arte... gli elementi sparsi si combinano” in un insieme organico che permette alle parti altrimenti meno belle di apparire belle insieme. 15 Questa enfasi sul legame intrinseco tra bellezza artistica e integrità è stata promossa e sostenuta ampiamente come una caratteristica del classicismo. Lo si può vedere, ad esempio, nella principale opera del poeta romano Orazio (65-8 a.C.) Ars Poetica (L’arte della poesia). Cassio Longino (213-273 ca.), nel suo famoso Sul sublime, sostiene che ci sono passaggi che non sono “degni di nota di per sé, eppure tutti insieme producono una struttura perfetta”, e che questa unità ben organizzata contribuisce alla grandezza della poesia. 16 Nonostante le loro differenze, per gli antichi Greci e Romani ciò che rende bella un’opera d'arte sono qualità oggettive e reali dell’opera stessa. Inoltre, la radice antica della discussione sulla bellezza artistica in Occidente mostra una dimensione di formalismo estetico, che rimane particolarmente attiva nella tradizione estetica occidentale a partire da Platone.
Nella tradizione occidentale non si può ignorare l’apporto significativo della religione cristiana nel plasmare la comprensione della bellezza artistica. Sant’Agostino (354-430), nelle sue Confessioni, ricordava i suoi primi scritti “sul bello e sul buono”, quelli che ora chiamava le “bellezze inferiori”, dimostrate da “esempi corporei” (1994). Come Aristotele e i suoi predecessori romani, Sant’Agostino pensa che questo tipo di bellezza derivi da un insieme organico armonizzato formato da parti corrispondenti. 17 Nella sua Città di Dio (2001:1161-2; libro XXII.19.2), Agostino scrive: “ogni bellezza corporea sta nell’armonia delle sue parti e in una certa dolcezza del colore”. In questa visione vediamo la confluenza della teoria classica della proporzione della bellezza (nozioni correlate: unità, integrità, armonia, ordine, completezza, ecc.) con la teoria della bellezza colore-luce che divenne sempre più influente nell’estetica medievale.
La grande sintesi dell’epoca si deve probabilmente a San Tommaso d'Aquino (1225-1274). Nella Summa Theologiae l’Aquinate scrive: “Per la bellezza infatti si richiedono tre doti. In primo luogo l’integrità o perfezione (integritas sive perfectio) poiché le cose incomplete, proprio in quanto tali, sono deformi. Quindi [si richiede] debita proporzione o armonia [tra le parti] (proportio sive consonantia). Finalmente chiarezza o splendore (claritas): difatti diciamo belle le cose dai colori nitidi e splendenti. (Tommaso d’Aquino 2014:460; I.39.8). 18 Si può sostenere che, identificando i tre costituenti formali della bellezza, ossia l’integrità, la proporzione e la chiarezza (proportio, claritas e integritas), l’Aquinate non solo ha sviluppato ulteriormente la dimensione estetica formalista della tradizione greca antica, ma ha anche fornito un resoconto oggettivo della bellezza artistica. Tuttavia, c’è un altro aspetto essenziale nella comprensione della bellezza sia di Agostino che dell’Aquinate. Nella visione cristiana del mondo, Dio è la causa della luce, dell’ordine e dell’armonia, è l'artista più virtuoso, che ha creato il mondo e gli esseri umani. L’Aquinate discute ciascuno dei tre elementi costitutivi della bellezza in relazione a una proprietà del Figlio, mentre Agostino ci ricorda che la causa ultima di tutte le cose belle — oggetti naturali e manufatti — è Dio: “bellezza di tutte le cose belle” (Agostino 1994:98; Le confessioni, libro III), “Formosissimo, che tutto informi (ivi:60; libro I).
Una delle prime nozioni cinesi di bellezza può essere ricostruita sui materiali del Libro dei Mutamenti. 19 Questo antico testo riporta una proposizione sconcertante, “you mei han zhi (有美含之)”, letteralmente “contenuto in questo c’è mei”. 20 Mei 美 è la parola cinese considerata la controparte della bellezza. Tuttavia, mei può essere usato anche come aggettivo e come verbo, e quindi significa “bello” o “abbellire”. Questa prima proposizione sulla bellezza nella tradizione cinese è interpretata come riferita alla formazione dei motivi decorativi (wen 文), come le forme, i colori e le venature che si vedono nelle piante e negli animali. 21 Si può sostenere che, alla luce dell’antica tradizione cinese, ciò che rende bella un’opera d’arte è la sua esibizione di un certo modello decorativo, se si ignora il possibile dilemma dell’uovo e della gallina. In The Beginning of Art di Ernst Grosse (2014), si sostiene che la prima arte decorativa deriva dai modelli delle cose naturali.
Mei nel Libro dei Mutamenti, così come in altri antichi testi cinesi, 22 è collegato alla nozione di finezza/finitezza (o di bene/bontà). Gli studi paleografici ci forniscono ulteriori prove. Il dizionario cinese del II secolo Shuowen Jiezi, redatto da Xu Shen 许慎 (58-148), afferma che “[mei] significa delizioso o dolce [gan 甘]. Il suo carattere è composto dai caratteri di Pecora/Capra (yang 羊) e Grande (da 大). Tra i sei tipi di animali domestici, la pecora/capra è la principale fonte di cibo. Bellezza e Bene/Bene (hao 好) hanno lo stesso significato” 23 Vale la pena notare che alcuni sostengono che la parola di Platone kalon — spesso tradotta con “bello” — è anche più vicina alla nozione di “bene” in molti contesti (Janaway 2000).24 San Tommaso d'Aquino traccia un’altra chiara equivalenza tra bellezza e bontà (”la bellezza e la bontà in una cosa sono fondamentalmente identiche”), ma invece di dare una spiegazione un po’ pragmatica come la fonte cinese, l’Aquinate ritiene che “il bene appartiene alla causa formale. Quindi anche il bene” (Tommaso d’Aquino 2014:74, I.5.4 ad 1).25
In generale, gli antichi pensatori greci e cinesi non sembrano avere interesse (o forse non hanno bisogno) di distinguere ciò che rende bella un’opera d’arte da ciò che la rende utile o buona, come facciamo noi. Inoltre, la ricerca di valori morali nella bellezza (argomento ampiamente tralasciato in questo capitolo) costituisce costantemente un approccio dominante in entrambe le tradizioni. Nella tradizione artistica cinese, proposizioni come “letteratura per portare avanti il Tao” (文以载道), “poesia per esprimere l’aspirazione” (诗以言志), “musica per risuonare con il Tao” (以音应道), “ricerca della tranquillità [spirituale] nel suono-musica” (声中求静) sono comuni nel corso di tutta la storia cinese. Secondo questa tradizione, l’eccellenza estetica dell’arte si intreccia con i suoi valori pratici e, soprattutto, morali. In un certo senso, ciò che rende bella un’opera d’arte deve essere anche qualcosa di moralmente buono. L’arte diventa un metodo di autocoltivazione morale. 26 La concezione moderna secondo cui ciò che rende bella un’opera d’arte dovrebbe essere qualcosa di sui generis e diverso da ciò che la rende cognitivamente, moralmente, religiosamente o politicamente valida è emersa in una fase piuttosto tarda della storia dell’estetica. Sicuramente, si potrebbe dire, quando guardiamo un vaso della dinastia Song fatto a Ruyao e lo riteniamo elegante e bello, ciò non è perché è adatto a disporre i fiori o per il suo valore all’asta, ma semplicemente perché il suo colore e la sua forma, così come la luce e l’ombra che giocano intorno ad esso ci deliziano. In questa transizione della comprensione della bellezza verso la cosiddetta teoria disinteressata della bellezza (con il famoso motto “l’arte per l’arte”), un grande contributo viene da Immanuel Kant (1724-1804).
Nonostante Alexander Baumgarten (1714-1762) sia ampiamente considerato colui che ha fondato l’estetica come disciplina filosofica moderna e l’ha definita come “scienza della cognizione sensibile” (in realtà per lo più come “teoria delle arti liberali”),27 è l’opera fondamentale di Kant Critica del giudizio (1790) a realizzare una vera e propria svolta. 28 In quest’opera, Kant affronta un importante tema del XVIII secolo, il gusto, attraverso un’indagine unica sul potere del giudizio riflessivo. L’arte è solo una delle molteplici preoccupazioni della Critica del giudizio. Nelle sezioni 42 e 43 del libro, Kant fornisce un chiarimento delle nozioni rilevanti di arte, come “arte in generale”, “arte libera”, “arte mercenaria” (o artigianato), “arte estetica” (compresa l’ “arte piacevole”, “arte bella”), tra le quali è probabilmente solo l’arte bella (schöne Kunst, letteralmente “arte bella”) che può essere considerata l’arte propriamente detta che svolge un ruolo significativo nella nozione di bellezza nell’estetica kantiana. Secondo Kant, entrambi i tipi di arte estetica comportano la sensazione di piacere, mentre per l’arte bella “tali sensazioni sono specie di conoscenza” invece che “rappresentazioni in quanto semplici sensazioni” (Kant [1790] 2017: 301). Le belle arti sono l'incarnazione della bellezza e comportano “un piacere non del godimento, in base alla semplice sensazione, bensì della riflessione” (ivi: 303). Per esempio, Kant considera la musica da tavola suonata ai banchetti come un’arte semplicemente piacevole invece che bella, perché è “soltanto come un suono gradevole” che serve a “mantenere gli animi disposti all’allegria” e “senza che nessuno dedichi la minima attenzione alla sua composizione, favorisca la libera conversazione tra vicini di tavola” (ibidem).
Inoltre, “l’arte bella deve essere guardata quale natura, sebbene si sia consapevoli che è proprio arte” (ivi:305). Poiché questa naturalezza deriva dalla finalità della sua forma, che sembra essere “libera da ogni costrizione di regole arbitrarie” ed è legata a un “sentimento della libertà nel gioco delle nostre facoltà cognitive”, Kant sostiene che “bello è ciò che piace nella semplice valutazione (non nella sensazione dei sensi né mediante un concetto)” (ivi:304-5). In breve, Kant pensa che quando giudichiamo un’opera d'arte come bella, ciò avviene perché la forma propositiva che essa esibisce suscita un libero gioco armonioso dei nostri poteri cognitivi (come l’immaginazione e la comprensione). Per esempio, nell’apprezzare esteticamente un dipinto floreale di van Gogh, è molto probabile che siamo deliziati dalle sue varie caratteristiche formali, come i colori vivaci e le pennellate espressive, e quindi lo definiamo bello. Kant sostiene che in questa esperienza la nostra immaginazione “nella sua libertà si armonizza con la seconda [la comprensione], nella sua conformità alla legge” (ivi: 263). Cioè, per realizzare in modo collaborativo la presentazione coinvolta in tale esperienza estetica, il nostro potere di comprensione dev’essere diretto non a concetti determinati (come la specie e il genere dei fiori, la loro corretta anatomia e altre caratteristiche botaniche), ma alla cosiddetta cognizione in generale.29 Kant pensa che il giudizio estetico riguardi semplicemente la forma dell’oggetto e non coinvolga alcun concetto (né cognitivo né morale), né richieda l’esistenza reale dell’oggetto.
Si potrebbe pensare che Kant sia un formalista radicale, che trova il valore estetico solo nella forma di un’opera d'arte e non nel suo contenuto o significato. Tuttavia, sarebbe sbagliato ridurre il suo pensiero a questa sola nozione. Nella sua discussione sulla bellezza libera, Kant sostiene che “Nella valutazione di una bellezza libera (secondo la semplice forma) il giudizio di gusto è puro. Non è presupposto alcun concetto di un qualche fine per il quale il molteplice debba servire all’oggetto dato e che esso dunque debba rappresentare” (ivi:133). Per Kant, molte cose naturali, come fiori e alberi, o create dall’uomo, come “il fogliame per le cornici o sulle carte da parati”, “ciò che in musica si chiamano fantasie (senza tema), anzi tutta la musica senza testo” rientrano nella categoria della bellezza libera. Al contrario, la bellezza di un edificio, la bellezza umana, ecc..., che presuppone “un concetto del fine che determina ciò che la cosa deve essere, di conseguenza presuppone un concetto della sua perfezione”, è solo bellezza aderente (ivi:131-132). In altre parole, la bellezza artistica (o la bellezza delle belle arti) può essere una bellezza libera o una bellezza aderente (anche detta “bellezza condizionata”), a seconda che il focus del giudizio effettivo presupponga o meno un concetto. Inoltre, analogamente alla tradizione cinese, Kant pensa che esista una relazione tra il bello e il bene morale, anche se ritiene che si tratti di una relazione analogica e che “il bello è il simbolo del bene morale” (ivi:405). Per esempio, il bello può suscitare “sensazioni che contengono qualcosa di analogo alla coscienza di uno stato dell’animo suscitato dai giudizi morali” (ivi:409). In questo senso, mantenendo una relazione simbolica e una solida analogia tra la morale e il bello, è difficile dire che Kant rompa completamente con la tradizione antica.
G.W.F. Hegel (1770-1831) usa esplicitamente il termine estetica come “filosofia delle belle arti”30 Pertanto, a differenza di Kant, la cui teoria del bello considerava principalmente la bellezza naturale, Hegel pone la bellezza artistica come soggetto principale della sua estetica. Per Hegel, nel concetto di bellezza sono insite le idee di libertà e di infinito,31 in quanto la bellezza è la manifestazione sensibile della libertà dello spirito, e “l’idea come unità immediata del concetto e della sua realtà” che “esiste immediatamente sotto parvenza sensibile e reale” (Hegel 2013:419). Hegel ritiene che “tutto ciò che è spirituale, infatti, è migliore di qualsiasi prodotto naturale. Nessuna essenza naturale mostra, d’altronde, ideali divini al modo in cui può farlo l’arte” (ivi:215), e pertanto sostiene che “il bello artistico si trovi più in alto della natura […] La bellezza artistica, infatti, è la bellezza che nasce e rinasce dallo spirito […] il bello naturale appare soltanto come un riflesso del bello che appartiene allo spirito, come un modo incompiuto, imperfetto, un modo che, secondo la sua sostanza, è contenuto nello spirito stesso (ivi:153). In breve, sotto tutte le qualità formali delle belle opere d’arte (unità, armonia, completezza organica, ecc.) c’è lo spirito libero che rende bella l’opera d’arte: “solo lo spirito è il vero, quello che abbraccia tutto in sé, così che tutto il bello è davvero bello solo in quanto partecipe di questa superiorità e prodotto mediante essa stessa” (ibidem).
In generale, la nozione di Hegel di “bellezza in sé” come “l’Idea realizzata nel mondo sensibile e reale” ([1835] 1988, 284) presenta forti tratti di essenzialismo. Nella tradizione cinese, l’approccio essenzialista alla comprensione della bellezza artistica non è mai stato pienamente sviluppato. Questo potrebbe avere a che fare con la già citata tendenza “interessata” della tradizione artistica cinese, che fonde le preoccupazioni pratiche con le ricerche estetiche, ma potrebbe anche essere una questione linguistica. Si sostiene che la grammatica e il pensiero metafisico abbiano una relazione intrinseca. Secondo questo punto di vista, il fatto che non esista una controparte della copula “essere” nella lingua cinese classica ha contribuito alla mancanza della nozione di “essere” e quindi alla possibilità di un argomento aristotelico per “l’essere in quanto essere”, che porta il pensiero metafisico cinese su una strada diversa dall’ontologia della sostanza. In estetica, la fusione delle funzioni di verbo, nome e aggettivo nella stessa parola mei sembra ridurre la possibilità di un approccio essenzialista nella tradizione cinese. Nella lingua cinese moderna, nonostante il mei sia stato gradualmente letto nelle qualità filosofiche della sua controparte occidentale, è stato necessario coniare termini come “mei benshen (美本身, bellezza in sé)” per tradurre correttamente la nozione essenzialista di bellezza.
Tuttavia, nella tradizione cinese sembra esistere una tesi prima facie hegeliana legata alla bellezza artistica. Come afferma Li Deyu 李德裕 (787-850) nel suo Wenzhang Lun (文章论, Sulla letteratura), “La scrittura in quanto tale [nasce] dal qi (energia vitale) ispiratore dello ziran (il sé). Arriva in [uno stato di] incertezza, arriva senza alcuna articolazione”32 Ouyang Xiu 欧阳修 (1007-1072), probabilmente il più illustre letterato dell’epoca, fa eco all’affermazione di Li e dice: “chi vuole scrivere qualcosa di immortale, [o] qualsiasi cosa interna si manifesti all’esterno, [deve] ottenerlo attraverso il sé”. Circa un secolo dopo un altro grande poeta, Lu You 陆游 (1125-1210), esprime nel suo poema Wenzhang (文章 Letteratura) che “la letteratura è originariamente una realizzazione celeste, e gli scrittori più raffinati l’hanno scoperta per caso”33 Questa linea di pensiero continuò e godette di una certa importanza nel XVII e XVIII secolo. Figure influenti come Gu Yanwu 顾炎武 (1613-1682) e Yao Nai 姚鼐 (1731-1815) hanno affermato rispettivamente: “come una brezza che viaggia sull’acqua, i modelli/scritture (wen) si formano naturalmente”;34 “la fonte della letteratura affonda le sue radici nel cielo e nella terra”35 Nel corso della storia, nonostante le sue numerose variazioni, questa influente linea di pensiero è testimoniata nella critica letteraria e nelle riflessioni su altre forme d’arte. Si può riassumere in una tesi: l’eccellenza artistica deriva dallo ziran (il sé).36 Lo ziran o il sé è un’idea centrale della filosofia cinese. Uno studio comparativo tra esso e lo spirito assoluto hegeliano sarebbe illuminante, ma non è il compito del presente capitolo. In poche parole, il sé è difficilmente un’entità trascendentale o non materiale. Una domanda pertinente ai fini del nostro discorso è: questa eccellenza artistica nella tradizione cinese sarebbe è la stessa cosa della bellezza? Bellezza è considerata la parola chiave della tradizione artistica occidentale fin dall’antichità. Se scorriamo gli scritti classici cinesi sulla critica d’arte si manifesta una differenza sorprendente: qui la categoria di mei o bellezza non ha una presenza dominante. Per esempio, tra le 24 categorie estetiche della poesia elencate da Sikong Tu 司空图 (837-908) nel suo celebre trattato (Sikong), solo tre o quattro categorie possono essere considerate legate alla nozione occidentale di bellezza. Inoltre, secondo lo Xishan Qinkuang 谿山琴况 (c. 1640) di Xu Hong (c. 1580-1660), il più influente trattato sull’estetica della musica del guqin (cetra cinese), la categoria di li (grazioso, bello) è solo la decima delle 24 categorie estetiche, e le prime sei erano armonia, tranquillità, chiarezza, profondità, antichità, sottigliezza.37 Nei dipinti cinesi, le categorie di shen (spirituale) e miao (sottile) venivano privilegiate rispetto a quella di mei. Nel complesso, si nota anche che il confronto tra il bello e il sublime, che ha definito l'influente estetica di Edmund Burke (1729-1797) e Immanuel Kant, e di conseguenza è diventato un discorso iconico nell'estetica occidentale, manca anche nella storia dell’estetica cinese. In conclusione, in un contesto comparativo interculturale, è lecito affermare che un’indagine su ciò che rende bella un’opera d’arte può rivelarsi ancora meno produttiva che nel mondo dell’arte contemporanea.
Il discorso contemporaneo: brevi osservazioni
La definizione hegeliana di estetica come filosofia dell’arte centrata sulla questione della bellezza artistica non è più attraente per il nostro tempo. Molti concordano nel ritenere che la domanda “che cosa rende bella un’opera d’arte?” giochi un ruolo minore nell’estetica e nella filosofia dell’arte contemporanee, dove la questione è stata aggiornata a “che cosa rende un’opera d’arte significativa o di valore?”. Due fattori possono contribuire a questa situazione. In primo luogo, non è una coincidenza che la perdita di interesse per l’indagine sulla bellezza artistica coincida con un cambiamento epocale nel mondo dell'arte, trasformato da nuovi movimenti artistici e da lotte per definire l’arte. La bellezza non è più una caratteristica distintiva dell’arte. Inoltre, quando il rappresentazionalismo, le teorie dell’espressione, il formalismo, il neoformalismo, le teorie estetiche nella definizione dell’arte non riescono a offrire un resoconto che sia in grado di affrontare le scene dinamiche del mondo dell’arte, e quando il movimento anti-essenzialista dell’estetica filosofica apre la strada al funzionalismo, all’istituzionalismo e a varie versioni dello storicismo, la questione della bellezza artistica in quanto tale non solo perde le sue luci della ribalta, ma viene anche, in qualche misura, abbandonata per il suo forte colore hegeliano. Ora, se l’ “arte” stessa diventa un concetto aperto o una nozione socialmente, storicamente e culturalmente sensibile, allora ciò che rende bella un’opera d'arte è improbabile che sia qualcosa di omogeneo e unitario. In secondo luogo, l’indagine sulla “bellezza” ha subito uno spostamento dell’attenzione dall’enfasi sulle proprietà estetiche degli oggetti all’esperienza soggettiva coinvolta nell’apprezzamento estetico. In altre parole, si è passati da un’indagine sulla “bellezza dell’oggetto” alla questione del “piacere della bellezza”. L’indagine contemporanea sulla bellezza in generale è spesso classificata alla luce del quadro del realismo e del non realismo. Il realismo considera la bellezza artistica come una proprietà delle opere d’arte indipendente dal soggetto, mentre il non realismo ritiene che la bellezza artistica non sia una proprietà indipendente delle opere d’arte. Questo cambiamento ha una lunga preparazione storica, a cui hanno contribuito soprattutto gli empiristi britannici come Francis Hutcheson (1694-1746) e David Hume (1711-1776). Hutcheson ritiene che la bellezza risieda sia nell’oggetto che nel soggetto e che la bellezza artistica derivi dalla qualità di “uniformità in mezzo alla varietà” dell’oggetto e dal coinvolgimento di un “senso interno” nel soggetto.38 Hume sostiene che “la bellezza non è una qualità nelle cose stesse”, ma un “sentimento” nella “mente che le contempla” e che “cercare la vera bellezza... è... infruttuoso”. Nell'estetica contemporanea, dallo studio dell’empatia alla libido di Freud, alla teoria evolutiva della bellezza, all’attenzione per la percezione nell’esperienza estetica, sempre più filosofi cercano di rispondere alla domanda su cosa rende bella un’opera d’arte alla luce della fisiologia e della psicologia umana. Per esempio, la teoria evoluzionistica considera la bellezza artistica come un “segnale di fitness” che mostra qualità personali desiderabili che rafforzano il vantaggio riproduttivo, e la nostra sensazione piacevole causata da qualcosa di bello, come il piacere sessuale, è incisa nella nostra mente dal processo evolutivo, aiutandoci a prendere “le decisioni più efficaci per la sopravvivenza e la riproduzione”39.
Conclusione
All'inizio di questo capitolo ho detto che questa indagine non è altro che una riflessione provvisoria sulla bellezza artistica, a causa delle discussioni ancora in corso che riguardano le nozioni di arte e di bellezza in generale. Abbiamo imparato molto da molte menti intelligenti nella storia dell’umanità, ma sembriamo ancora meno sicuri di una risposta alla nostra indagine. C’è da dire anche che un’indagine completa sulla bellezza è difficilmente separabile da questioni come il brutto e lo strano (o la deformità) che non abbiamo affrontato. Nell’estetica cinese, il brutto o il bizzarro è stato a lungo un argomento di rilievo nell’apprezzamento estetico. Inoltre, alcuni potrebbero mettere in discussione la nostra indagine basata sull’intuizione linguistica. Che cosa intendiamo veramente quando usiamo la parola “bello” per descrivere le cose? Sembra che, sia in cinese che in inglese, la parola beautiful o mei sia spesso usata come un commento positivo (come “bello!”, “meraviglioso!”) che si riferisce a cose che non hanno nulla in comune. Dobbiamo accettare che (anche se a malincuore) la bellezza artistica o la bellezza in generale è un Je ne sais quoi, e sospirare: “ciò che è bello è difficile?”40 Sembra che nemmeno questa sia la nostra via d'uscita. Per quanto il bello sia sfuggente e indefinibile, molti di noi sono ancora d'accordo sul fatto che sia qualcosa di desiderabile e che getti luce su una comprensione più profonda dell'umanità: “ciò che è bello non è bello di per sé, ma si manifesta attraverso gli esseri umani”41 — quelli che lo creano e quelli che lo apprezzano. Ora forse possiamo spostare strategicamente la nostra domanda per fare un po’ di chiarezza. Chiediamoci invece: chi rende bella un’opera d'arte? Credo che la risposta a questa domanda non sia troppo difficile.
Ringraziamenti
La pubblicazione di questo capitolo è il risultato (in parte) del progetto di ricerca “A Philosophical Aesthetic Study of Style”, sostenuto dal National Social Science Fund of China (Award Number: 19CZX062).
Riferimenti bibliografici
Agostino d’Ippona, Le confessioni, Rizzoli, Milano 1994.
Agostino d’Ippona, La città di Dio, a cura di Luigi Alici, Bompiani, Milano 2001.
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Note
Introduction to Philosophy: Aesthetic Theory and Practice, di Andrew Broady, Elizabeth Burns Coleman, Pierre Fasula, Richard Hudson-Miles, Ines Kleesattel, Xiao Ouyang, Matteo Ravasio, Yuriko Saito, Elizabeth Scarbrough, Matthew Sharpe, Ruth Sonderegger, Valery Vino e Alexander Westenberg; a cura di Valery Vino e Christina Hendricks, prodotto con il supporto della Rebus Community. L'originale è disponibile gratuitamente con licenza CC BY 4.0 al'url: https://press.rebus.community/intro-to-phil-aesthetics. Edizione italiana a cura di Antonio Vigilante