Introduzione al pensiero indiano

 

Indice

Complessità del pensiero indiano

È opinione comune che la civiltà indiana sia caratterizzata dalla centralità della spiritualità e della religione, dallo yoga e dalla meditazione. L’India evoca immediatamente la figura dell’asceta e del guru. Si tratta di un pregiudizio che, come ogni pregiudizio, ha qualcosa di vero. L’India ha una importante tradizione, ancora viva, di ricerca spirituale, e non è raro che anche pensatori contemporanei vedano in essa ciò che l’India può dare al mondo, spesso contrapponendo apertamente la spiritualità indiana al materialismo occidentale. Come ogni pregiudizio, però, implica una semplificazione. Fin dalla più remota antichità il pensiero indiano è caratterizzato da una grande ricchezza e varietà di posizioni. Non si tratta solo di diverse scuole di pensiero in ambito religioso: in India sono sorte anche scuole materialistiche, atomistiche, scettiche ed ateistiche; lo stesso Buddhismo contesta con durezza la tradizione religiosa e separa il percorso di liberazione dalla concezione del divino.

La liberazione dalla sofferenza, moksha, è per l’India classica il fine supremo dell’esistenza, ma questo non vuol dire che sia l’unico fine o che tutti debbano perseguirlo. I fini della vita, chiamati purusharthartha, sono quattro. Accanto a moksha compaiono dharma, il compimento dei doveri morali e sociali, artha, il successo professionale ed economico e kama, l’amore, il sesso, il godimento estetico della vita. Questa molteplicità di scopi dell’esistenza rende particolarmente complessa e varia la riflessione indiana: accanto ad austeri trattati sulla liberazione compaiono testi su come raggiungere il piacere sessuale, come il noto Kamasutra, testi di teoria e strategia politica e trattati economici. Quel che è più interessante è l’autonomia di questi campi. I testi di politica e strategia militare non presentano una concezione della politica e della guerra in qualche modo spiritualizzata, in accordo con la religione e i la morale. Al contrario: la politica ha le sue regole, che possono anche essere immorali, così come la guerra richiede l’uso di mezzi efficaci per giungere alla sconfitta del nemico.

Idee fondamentali

Due concezioni importanti per comprendere il pensiero indiano, perché ricorrenti pur nella diversità delle posizioni, sono quella della metempsicosi e quella del karman. Se in Occidente molti filosofi condividono la convinzione che l'anima sopravviva al corpo e con l'avvento del cristianesimo si diffonde l'idea del giudizio di Dio, che salva o condanna alla perdizione eterna, in India era ed è diffusa l'idea che dopo la morte si rinasca in altre forme, umane o animali, e che questo processo sia regolato da una legge immanente, il karman appunto, secondo la quale i frutti delle azioni buone o cattive, spirituali o materiali, maturano nelle esistenze successive. Ciò non è motivo di speranza. Al contrario, quello della rinascita appare come un ciclo intriso di sofferenza che bisogna spezzare, e la conoscenza ha anche questo scopo: giungere alla liberazione finale dal ciclo delle rinascite.

Collegata a questa visione del ciclo di nascita-morte-rinascita, chiamato samsara, è la convinzione che esso sia in realtà illusorio, una sorta di gioco cosmico che la conoscenza ha il compito di svelare nella sua inconsistenza. Tutta la creazione è maya, una illusione che ci imprigiona con la forza di un incantesimo e da cui occorre liberarsi.

Un termine fondamentale per comprendere il pensiero indiano è dharma. La parola sanscrita non ha un diretto corrispondente nelle lingue occidentali, anche se spesso nelle traduzioni si ricorre ai termini legge e dovere. Il concetto è collegato a quello di rta, l’ordine cosmico, ed indica tutto ciò che consente di mantenere questo ordine. Di qui la connessione tra legge e dovere. Le azioni umani possono contribuire all’ordine dell’universo oppure introdurre in esso il disordine e il caos. Ogni essere umano è tenuto a comportarsi secondo in modo da non turbare questo ordine. Nella visione indiana la vita individuale si inserisce in quella sociale, che a sua volta si inserisce in quella cosmica. L‘universo è come una immensa rappresentazione teatrale nella quale ognuno deve recitare con cura la sua parte. Nel caso in cui ciò non avvenga, la legge implacabile del karman agisce da correttivo: l’infrazione dell’ordine cosmico comporta sempre sofferenza, in questa esistenza o in una esistenza futura.

Legata a quanto detto è la divisione della società in caste, che caratterizza ancora oggi la società indiana, anche se la Costituzione indiana all’articolo 15 proibisce qualsiasi discriminazione fondata sulla casta. L’articolo 17 proibisce anche l’intoccabilità, ossia la condizione di particolare esclusione sociale i cui si trovano coloro che sono al di fuori di qualsiasi casta. Il termine sanscrito per indicare la casta è varna, che include l’idea di colore. Le caste sono quattro, distinte a loro volta in diverse sottocaste: i brahmani, la casta superiore di colori che si dedicano alle pratiche religiose, soprattutto quella del sacrificio, gli kshatriya, i soldati e in genere coloro che si occupano dello Stato, i vaishya, mercanti, artigiani e produttori in genere e gli shudra, coloro che compiono lavori umili. Le caste sono ordinate gerarchicamente, ma in un’ottica sistemica, per cui tutte contribuiscono all’ordine sociale e quindi cosmico. Ogni casta e sottocasta ha un rigido sistema di regole e doveri, il proprio particolare dharma, che ogni membro è tenuto a rispettare; ed è tradizionalmente proibito il mescolamento delle caste anche attraverso i matrimoni.

Si tratta di un sistema che non è accettato da tutte le correnti del pensiero cinese. Il Buddhismo, ad esempio, che è nato in India e poi si è sviluppato in altri Paesi asiatici, rigetta il sistema delle caste e polemizza fortemente con il primato dei brahmani, di cui mette in discussione il potere e la pretesa di possedere una conoscenza superiore che lo giustifica.

Sintesi storica

Gli studi archeologici hanno scoperto che la valle dell’Indo, che comprende un’area geografica situata prevalentemente nell’attuale Pakistan, ha visto in epoca preistorica il fiorire di una civiltà urbana, nota come civiltà vallinda o di Harappa, le cui città più importanti erano appunto Harappa e di Mohenjo-Daro. Oltre a costruire città complesse, sulla cui reale estensione è possibile fare solo ipotesi, ma che rivelano una certa complessità e pianificazione urbanistica, questa civiltà conosceva l’agricoltura e la scrittura, che non è stata decifrata.

Intorno alla metà del secondo millennio a.C. questa civiltà, probabilmente poco avvezza alla guerra, declina per l’irrompere di tribù nomadi provenienti da Occidente, gli Arii. Non è possibile sapere con certezza se si è trattato di una invasione violenta o di una penetrazione pacifica; quello che è certo è che questi popoli creano una sistema culturale-sacerdotale centrato sui Veda che sarà il fondamento millenario della società indiana. Si tratta di una società fondamentalmente tribale, con una economia che gradualmente evolve dalla pastorizia nomade all’agricoltura, e la cui tecnologia comprende l’uso del rame e della ruota a raggi.

L’età vedica va all’incirca dal 1000 al 500 avanti Cristo. Nell’ultimo periodo si diffonde l’uso de ferro e l’agricoltura si afferma come principale attività economica. Ciò favorisce un surplus produttivo che a sua volta consente la nascita di una civiltà urbana caratterizzata da una più complessa organizzazione sociale e politica. È in questa epoca, che va all'incirca dal VII al II secolo a. C, nella quale si sviluppano la grande epica classica indiana, con il maestoso Mahabharata e con il Ramayana, e i diversi sistemi filosofici. L’organizzazione politica vede in questo periodo la nascita di una molteplicità di stati, alcuni a carattere monarchico e altri con una organizzazione politica che fa pensare alle repubbliche: il potere è amministrato da una assemblea dei principali rappresentanti della tribù, con il ricorso al voto nel caso in cui la decisione non sia unanime. Queste prime repubbliche rappresentano una fase di passaggio dalla organizzazione tribale a quella monarchica, non priva di scontri. Con l’affermazione delle monarchie diventa centrale la casta dei brahmani, che sono chiamati a giustificare l’ordine sociale affermando la natura divina del potere e della figura del monarca.

Le scuole ortodosse

I sistemi filosofici e religiosi che si sono sviluppati in India possono essere in primo luogo divisi in due grandi categorie: ortodossi (āstika) ed eterodossi (nāstika). Sono ortodossi i sistemi che riconoscono l’autorità dei Veda e l’ordine sociale che ad esso si lega. Sono invece eterodossi i sistemi, come il Buddhismo, che rifiutano i Veda, le caste, il sacrificio, le divinità tradizionali e procedono a elaborare una visione del mondo autonoma, anche se naturalmente condizionata dal contesto culturale.

La tradizione individua sei grandi scuole ortodosse. Il termine usato per individuarle è darśana, da una radice che indica l’atto di vedere; il termine può essere dunque tradotto come punti di vista. I sei darśana sono:

  1. Il Samkhya
  2. Lo Yoga
  3. Il Nyaya
  4. Il Vaishesika
  5. Il Mīmāmsā
  6. Il Vedānta

Tutte queste scuole mirano, per vie diverse e con diversi strumenti concettuali, allo scopo comune della liberazione e condividono dunque un’analisi della realtà come intrinsecamente dolorosa. Alla base di ogni scuola c’è un testo-radice, estremamente sintetico, attribuito ad un saggio antico; su questo testo si innestano una grande quantità di commenti, esposizioni, glosse che costituiscono il vero corpus dottrinale della scuola.

Occorre precisare che la distinzione tra scuole ortodosse e scuole eterodosse, in qualche modo eretiche, non implica che i seguaci di queste ultime siano perseguitati. Il mondo culturale e religioso indiano è caratterizzato da un confronto dialogico perfino frenetico, con maestri che si sfidano alla presenza dei rispettivi seguaci. Nei testi di ogni scuola questi confronti sono presentati in modo da denigrare l’avversario (nei testi buddhisti ad esempio Mahavira, in fondatore del Jainismo, risulta sistematicamente e malamente sconfitto, mentre in quelli jainisti ad essere sconfitto è il Buddha), ma senza che si trascenda nella violenza o nella persecuzione fisica.

Il quadro religioso appena tratteggiato, con la divisione tra scuole ortodosse ed eterodosse che condividono un nucleo di convinzioni comuni, come quelle relative al karman e alla rinascita, cambierà con la penetrazione islamica. Nell’Alto Medioevo il Buddhismo è entrato in crisi fino a scomparire sul territorio indiano (mentre fiorirà in altri Parsi, dal Tibet alla Cina). La causa di questo declino va ricercata secondo lo storico Michelguglielmo Torri nella crisi della base sociale del Buddhismo, rappresentata del ceto dei commercianti, dovuta alla nascita del sistema feudale, ma anche dalla diffusione di pratiche magiche e tantriche che di fatto rendevano indistinguibile il Buddhismo dal Brahmanesimo, soprattutto agli occhi soprattutto della massa incolta (Storia dell’India, pp. 164 segg).

Bibliografia minima

Leonardo Arena, La filosofia indiana, Newton Compton, Roma 2012.

Giovanni Filoramo (a cura di). Hinduismo, Laterza, Roma-Bari 2007.

Daniela Rossella, Induismo, Guerini e Associati, Milano 2017.

Raimon Panikkar, Il Dharma dell’Induismo, BUR, Milano 2006.

Michelguglielmo Torri, Storia dell’India, Laterza, Roma-Bari 2007.

 

Testo di Antonio Vigilante. Licenza CC BY-SA 4.0 International.

Foto di Ankit Patel su Unsplash