Una donna nobile visita un gruppo di asceti. Murshidabad, c. 1770. Pubblico dominio.

1. Yoga e Samkhya

La via dello Yoga è collegata al Samkhya. Per questa scuola, come abbiamo visto, la liberazione dalla condizione di sofferenza in cui ci troviamo può essere ottenuta attraverso una conoscenza profonda della natura della realtà, che giunga a cogliere dietro al variare dei fenomeni le due realtà della Natura e dello Spirito. Per lo Yoga tale conoscenza non è in sé sufficiente, se non accompaganata da un insieme di pratiche che hanno lo scopo di soggiogare (questo è il senso della parola Yoga) i sensi e disciplinare la mente. Solo attraverso una lunga pratica è possibile portare la mente al silenzio e riconoscere ciò che siamo davvero.

2. Unire e soggiogare

Il termine yoga deriva da una radice sanscrita che significa “unire”, ma anche “soggiogare”. Unire, perché lo scopo è riconnettersi con il proprio Sé profondo, la parte più vera di sé; soggiogare, perché lungo il cammino occorre imparare a dominare i sensi, le emozioni, le reazioni istintive. Non si tratta, dunque, solo di una tecnica per rilassarsi, ma di un vero e proprio metodo per trasformare se stessi.

3. Patañjali

Il fondatore dello Yoga classico è Patañjali (presumibilmente II secolo a.C.), autore degli Yoga Sutra, il testo fondamentale della scuola, ma pratiche yogiche esistono fin dall'epoca più antica (se ne trova traccia anche nei Veda), e secondo alcuni studiosi risalirebbero alla civiltà della valle dell'Indo.

Il primo verso dell'opera di Patañjali offre una definizione dello Yoga e del suo scopo: "Lo Yoga è l'estinzione dei vortici della mente" (citta vritti nirodha). Il termine vritti indica un movimento circolare e in questo contesto coglie con notevole efficacia l'andare e venire dei pensieri che è causa costante di afflizione psicologica. I pensieri, i ricordi, i desideri e le paure ci agitano continuamente, come onde su uno specchio d’acqua che impediscono di vedere in profondità. Quando la mente si acquieta, emerge la nostra vera natura, che non è ciò che pensiamo, ma ciò che osserva.

4. Le afflizioni

Per lo Yoga questo vortice di pensieri a sua volta è causato da quattro fattori, chiamati klesha, ossia afflizioni: la passione, l'odio, l'attaccamento all'esistenza e la convinzione di essere un io. Come nel Samkhya, nello Yoga quest'ultimo aspetto ha una importanza centrale: la causa principale della sofferenza è l'errata identificazione con il nostro io, vale a dire con la realtà psicologica e mentale, che nella visione di molte scuole filosofico-religiose indiane costituisce l'ostacolo principale alla comprensione della realtà.

La prima e più radicata è l’ignoranza (avidya), cioè la non conoscenza della realtà. Da questa scaturisce l’erronea identificazione con l’io personale (asmita), la convinzione di essere la nostra mente o il nostro corpo. A questa si aggiungono l’attaccamento al piacere (raga), l’avversione per il dolore (dvesha) e infine una profonda paura della morte, che si esprime come attaccamento alla vita (abhinivesha). Questi cinque fattori mantengono la mente inquieta e la persona incatenata alla sofferenza e all’illusione.

5. Il cammino di liberazione

Per liberarsi da queste afflizioni, Patanjali propone un percorso graduale, che comprende otto fasi. È il cosiddetto sentiero dell’ottuplice Yoga, o ashtanga. Si comincia da un lavoro sul comportamento: occorre evitare alcune azioni dannose — come la violenza, la menzogna, il furto, la dissolutezza e l’avidità — e coltivare alcune qualità interiori, come la purezza, la contentezza, la disciplina, lo studio di sé e la fiducia in un principio superiore. Questi due primi stadi sono chiamati yama e niyama, e costituiscono le fondamenta etiche del cammino yogico.

Segue poi la pratica delle asana, cioè le posture del corpo. Nell’Occidente contemporaneo lo Yoga è spesso identificato con queste posizioni, ma nel sistema di Patanjali esse hanno un ruolo preparatorio: servono a rendere il corpo stabile e comodo per sostenere la meditazione, non a ottenere performance atletiche.

Dopo aver stabilizzato il corpo, si passa al respiro, con la pratica del pranayama. Si tratta di un insieme di tecniche che regolano l’inspirazione, l’espirazione e la sospensione del respiro secondo ritmi precisi. Il respiro diventa così uno strumento per calmare la mente, per riequilibrare le emozioni e per accedere a stati più profondi di consapevolezza.

Un altro passo importante è il pratyahara, che consiste nel ritiro dei sensi dagli oggetti esterni. Invece di lasciarsi attrarre da ciò che si vede, si ascolta o si desidera, l’attenzione si rivolge all’interno. È come se i sensi, invece di correre verso il mondo, tornassero alla sorgente, preparando la mente alla concentrazione.

La fase successiva è la dharana, la concentrazione: qui l’attenzione si fissa su un solo oggetto, che può essere una parte del corpo, un simbolo, un suono, o perfino il respiro stesso. Quando la concentrazione diventa continua e ininterrotta, si entra nello stato di dhyana, la meditazione vera e propria: un flusso stabile di attenzione in cui la mente non è più disturbata.

L’ultimo stadio è il samadhi, l’assorbimento meditativo. In questo stato, la distinzione tra chi osserva e ciò che è osservato si dissolve. Il praticante sperimenta un senso di unione profonda con l’oggetto della meditazione, fino a riconoscere che la propria coscienza è qualcosa di totalmente distinto dalla mente e dal corpo: è il Purusha, la pura consapevolezza.

Quando questo riconoscimento è stabile, avviene la liberazione. In questo ottavo stadio non si giunge solo a colmare i vortici mentali, ma viene raggiunta anche la meta suprema cui mirava il Samkhya: il riconoscimento che noi non siamo il nostro io, ma il Purusha, e che esso è altro dalla Natura-Prakriti e separato (e libero) da essa. E in questo riconoscimento è la liberazione non solo dalla sofferenza mentale, ma dal ciclo stesso delle rinascite.

6. Ishvara

Negli Yoga Sutra si parla anche della possibilità di raggiungere l'ultimo stadio, samadhi, attraverso l'abbandono a l'Ishvarapranidhana, espressione che viene spesso tradotta con "abbandono a Dio". È bene però precisare che, come afferma chiaramente il verso I.24 dell'opera, Ishvara non è un Dio creatore del mondo, ma semplicemente un purusha particolare, diverso dagli altri, non toccato dalle afflizioni e libero dagli effetti del karma. Non un Dio creatore, dunque, ma nemmeno un Dio liberatore; piuttosto un punto di riferimento durante la pratica meditativa e ascetica.

Bibliografia essenziale

Mircea Eliade, Lo Yoga. Immortalità e libertà, a cura di Furio Jesi, traduzione di Giorgio Pagliaro, BUR, Milano 2010.

Patañjali, Gli Yoga Sutra, a cura di Leonardo Vittorio Arena, BUR, Milano 2014.

I. K. Taimni, La scienza dello Yoga. Commento agli Yogasutra di Patanjali, Ubaldini, Roma 1970.