L'utilitarismo
Introduzione
Iniziamo la nostra introduzione all'utilitarismo con un esempio che mostra come gli utilitaristi rispondono alla seguente domanda: "Il fine può giustificare i mezzi?" Immaginiamo che Peter sia un povero disoccupato di New York. Anche se non ha soldi, la sua famiglia dipende ancora da lui; sua moglie disoccupata (Sandra) è malata e ha bisogno di 500 dollari per le cure, e i loro figli piccoli (Ann e Sam) sono stati cacciati da scuola perché non potevano pagare le tasse scolastiche (500 dollari per entrambi). Peter non ha fonti di reddito e non può ottenere un prestito; persino John (suo amico e milionario) si è rifiutato di aiutarlo. Dal suo punto di vista, ci sono solo due alternative: o paga rubando o non paga. Così, ruba 1000 dollari a John per pagare le cure di Sandra e le tasse scolastiche di Ann e Sam. Si ritiene che rubare sia moralmente sbagliato. Pertanto, diremo che ciò che Peter ha fatto — rubare a John — è moralmente sbagliato.
L'utilitarismo, tuttavia, dirà che ciò che Peter ha fatto è moralmente giusto. Per gli utilitaristi, rubare in sé non è né cattivo né buono; ciò che lo rende cattivo o buono sono le conseguenze che produce. Nel nostro esempio, Peter ha rubato a una persona che ha meno bisogno di soldi e ha speso i soldi per tre persone che ne hanno più bisogno. Quindi, per gli utilitaristi, il fatto che Peter abbia rubato a John (il "mezzo") può essere giustificato dal fatto che i soldi sono stati usati per le cure di Sandra e per le tasse scolastiche di Ann e Sam (il "fine"). Questa giustificazione si basa sul calcolo che i benefici del furto superano le perdite causate dal furto. Il furto di Peter è moralmente giusto perché ha prodotto più bene che male. In altre parole, l'azione ha provocato più piacere o felicità che dolore o infelicità, cioè ha aumentato l'utilità netta.
Lo scopo di questo capitolo è spiegare in che modo l'utilitarismo arriva ad una conclusione come quella descritta sopra, e poi esaminare i suoi punti di forza e di debolezza. La discussione è divisa in tre parti: la prima parte spiega cos'è l'utilitarismo, la seconda discute alcune varietà (o tipi) di utilitarismo, e la terza esplora se l'utilitarismo sia persuasivo e ragionevole.
Cos'è l'utilitarismo?
L'utilitarismo è una forma di consequenzialismo. Per il consequenzialismo, la giustezza o l'erroneità morale di un atto dipende dalle conseguenze che produce. Su basi consequenzialiste, le azioni e le inazioni le cui conseguenze negative superano quelle positive saranno considerate moralmente sbagliate, mentre le azioni e le inazioni le cui conseguenze positive superano quelle negative saranno considerate moralmente giuste. Su basi utilitaristiche, le azioni e le inazioni che beneficiano poche persone e danneggiano più persone saranno considerate moralmente sbagliate, mentre le azioni e le inazioni che danneggiano meno persone e beneficiano più persone saranno considerate moralmente giuste.
Beneficio e danno possono essere caratterizzati in più di un modo; per gli utilitaristi classici come Jeremy Bentham (1748-1832) e John Stuart Mill (1806-1873), sono definiti in termini di felicità/infelicità e piacere/dolore. Da questo punto di vista, le azioni e le inazioni che causano meno dolore o infelicità e più piacere o felicità di azioni e inazioni alternative disponibili saranno considerate moralmente giuste, mentre le azioni e le inazioni che causano più dolore o infelicità e meno piacere o felicità di azioni e inazioni alternative disponibili saranno considerate moralmente sbagliate. Anche se piacere e felicità possono avere significati diversi, nel contesto di questo capitolo saranno trattati come sinonimi.
La preoccupazione degli utilitaristi è quella di aumentare l'utilità netta. La loro teoria morale si basa sul principio di utilità che afferma che "l'azione moralmente giusta è quella che produce più bene" (Driver 2014). L'azione moralmente sbagliata è quella che porta alla riduzione del bene complessivo. Per esempio, un utilitarista può sostenere che anche se alcuni rapinatori armati hanno rapinato una banca, finché ci sono più persone che beneficiano della rapina (poniamo che come Robin Hood i rapinatori abbiano generosamente condiviso il denaro con molte persone) di quante sono le persone che soffrono della rapina (poniamo che solo il miliardario che possiede la banca songa il costo della perdita), la rapina sarà moralmente giusta piuttosto che moralmente sbagliata. E in base a questa premessa utilitaristica se più persone soffrono della rapina mentre meno persone ne beneficiano, la rapina sarà moralmente sbagliata.
Dalla precedente descrizione dell'utilitarismo, si nota che l'utilitarismo è opposto alla deontologia, che è una teoria morale che dice che come agenti morali abbiamo certi doveri o obblighi, e questi doveri o obblighi sono formalizzati in termini di regole (vedi capitolo 6). C'è una variante dell'utilitarismo, cioè l'utilitarismo delle regole, che fornisce regole per valutare l'utilità delle azioni e delle inazioni (vedi la prossima parte del capitolo per una spiegazione dettagliata). La differenza tra una regola utilitaristica e una regola deontologica è che secondo gli utilitaristi agire secondo la regola è corretto perché la regola è quella che, se ampiamente accettata e seguita, produrrà il maggior bene. Secondo i deontologi, il fatto che le conseguenze delle nostre azioni siano positive o negative non determina la loro giustezza o erroneità morale. Ciò che determina la loro giustezza o erroneità morale è se noi agiamo o non agiamo in accordo con il nostro dovere o i nostri doveri (e il nostro dovere è basato su regole che non sono esse stesse giustificate dalle conseguenze derivanti dal loro essere ampiamente accettate e seguite).
Alcune varietà (o tipi) di utilitarismo
La precedente descrizione dell'utilitarismo è generale. Possiamo, tuttavia, distinguere tra diversi tipi di utilitarismo. In primo luogo, tra "utilitaristi delle conseguenze effettive" e "utilitaristi delle conseguenze prevedibili". I primi basano la valutazione della giustezza e dell'erroneità morale delle azioni sulle loro conseguenze reali, mentre i secondi la basano sulle loro conseguenze prevedibili. J. J. C. Smart (1920-2012) spiega la logica di questa distinzione con riferimento al seguente esempio: immaginate di aver salvato qualcuno dall'annegamento. Avete agito in buona fede per salvare una persona che stava annegando, ma si dà il caso che la persona sia poi diventata un serial killer. Poiché la persona è diventata un serial killer, gli utilitaristi delle conseguenze effettive sosterrebbero che, a posteriori, l'atto di salvare la persona era moralmente sbagliato. Tuttavia, gli utilitaristi della conseguenza prevedibile sosterrebbero che non si poteva prevedere che la persona sarebbe diventata un serial killer, quindi l'atto di salvarla era moralmente giusto (Smart 1973, 49). Inoltre, avrebbe potuto rivelarsi un "santo" o Nelson Mandela o Martin Luther King Jr, nel qual caso l'azione sarebbe stata considerata moralmente giusta dagli utilitaristi delle conseguenze reali.
Una seconda distinzione che possiamo fare è quella tra utilitarismo degli atti e utilitarismo delle regole. L'utilitarismo degli atti si concentra sulle azioni individuali e sostiene che dovremmo valutarle applicando il principio di utilità. Gli utilitaristi sostengono che tra le azioni possibili quella che produce più utilità è moralmente giusta. Ma questo può sembrare impossibile da mettere in pratica poiché saremmo in tal caso moralmente tenuti ad esaminare le conseguenze di qualsiasi azione che abbia un effetto possibile sulle altre persone, per poter scegliere quella con l’effetto migliore. L'utilitarismo delle regole risponde a questo problema concentrandosi su tipi generali di azioni e determinando se esse portano tipicamente a risultati buoni o cattivi. Questo, per loro, è il significato delle regole morali comunemente accettate: sono generalizzazioni delle conseguenze tipiche delle nostre azioni. Per esempio, se rubare porta tipicamente a conseguenze negative, rubare in generale sarebbe considerato da un utilitarista della regola come sbagliato.1
Gli utilitaristi sostengono dunque di essere in grado di reinterpretare i discorsi sui diritti, la giustizia e il trattamento equo in termini di principio di utilità, sostenendo che la logica dietro ogni regola di questo tipo è davvero che queste regole generalmente portano a un maggiore benessere per tutti gli interessati. Ci si può chiedere se l'utilitarismo in generale sia in grado di riconoscere che le persone hanno diritti e meritano di essere trattate in modo giusto ed equo, dal momento che in situazioni critiche i diritti e il benessere delle persone possono essere sacrificati se questo sembra portare ad un aumento dell'utilità complessiva.
Ad esempio, in una versione del famoso "problema del carrello ferroviario", immaginate che voi e uno sconosciuto sovrappeso siate in piedi uno accanto all'altro su una passerella sopra un binario. Scoprite che c'è un carrello in corsa che corre lungo i binari e che sta per uccidere cinque persone che non riusciranno a scendere dai binari abbastanza velocemente da evitare l'incidente. Essendo disposto a sacrificarvi per salvare le cinque persone, considerate la possibilità di
saltare dal ponte, davanti al carrello... ma vi rendete conto di essere troppo leggeri per fermare il carrello... L'unico modo che avete per impedire al carrello di uccidere cinque persone è spingere questo grosso sconosciuto giù dal ponte, di fronte al carrello. Se spingete lo sconosciuto giù, lui verrà ucciso, ma voi salverete gli altri cinque. (Singer 2005, 340)
L'utilitarismo, specialmente l'utilitarismo degli atti, sembra suggerire che la vita dello sconosciuto in sovrappeso dovrebbe essere sacrificata a prescindere da qualsiasi presunto diritto alla vita che potrebbe avere. Un utilitarista della regola, tuttavia, potrebbe rispondere che, poiché in generale uccidere persone innocenti per salvarne altre non è ciò che tipicamente porta ai migliori risultati, dovremmo essere molto cauti nel prendere una decisione in tal senso in questo caso. Questo è particolarmente vero in questo scenario poiché tutto si basa sul nostro calcolo di ciò che potrebbe eventualmente fermare il carrello, mentre in realtà c'è davvero troppa incertezza nel risultato per giustificare una decisione così seria. Se non altro, l'enfasi posta sui principi generali dagli utilitaristi può servire come un avvertimento a non prendere troppo alla leggera la nozione che il fine potrebbe giustificare i mezzi.
Se questa risposta sia adeguata o meno è qualcosa che è stato ampiamente dibattuto con riferimento a questo famoso esempio e a innumerevoli varianti. Questo ci porta alla nostra domanda finale sull'utilitarismo: se è in definitiva si tratta di un approccio convincente e ragionevole alla moralità.
L'utilitarismo è convincente e ragionevole?
Prima di tutto, cominciamo con l'interrogarci sul principio di utilità come principio fondante della moralità, cioè sull'affermazione che ciò che è moralmente giusto è solo ciò che porta al risultato migliore. L'argomentazione di John Stuart Mill si basa sulla sua affermazione che "ogni persona, nella misura in cui crede che sia raggiungibile, desidera la propria felicità" (Mill [1861] 1879, cap. 4). Mill deriva il principio di utilità da questa affermazione sulla base di tre considerazioni: desiderabilità, esaustività e imparzialità. Cioè, la felicità è desiderabile come fine in sé; è l'unica cosa che è così desiderabile (esaustività); e la felicità di una persona non è realmente più desiderabile o meno desiderabile di quella di qualsiasi altra persona (imparzialità) (vedi Macleod 2017).
Nel difendere la desiderabilità, Mill sostiene che
L'unica prova che può essere data che un oggetto è visibile, è che le persone lo vedono davvero. L'unica prova che un suono è udibile, è che la gente lo sente: e così delle altre fonti della nostra esperienza. Allo stesso modo... l'unica prova che è possibile produrre che qualcosa è desiderabile, è che le persone lo desiderano effettivamente. (Mill [1861] 1879, cap. 4)
Nel difendere l'esaustività, Mill non sostiene che altre cose, a parte la felicità, non siano desiderate in quanto tali; ma mentre altre cose sembra che siano desiderate, la felicità è l'unica cosa che è realmente desiderata, poiché qualsiasi altra cosa possiamo desiderare, lo facciamo perché raggiungerla ci renderebbe felici. Infine, nel difendere l'imparzialità, Mill sostiene che quantità uguali di felicità sono ugualmente desiderabili, indipendentemente dal fatto che la felicità sia provata dalla stessa persona o da persone diverse. Nelle parole di Mill, "la felicità di ogni persona è un bene per quella persona, e la felicità generale, quindi, un bene per l'insieme di tutte le persone" (Mill [1861] 1879, cap. 4). Possiamo chiederci, tuttavia, se quest'ultimo argomento sia veramente adeguato. Mill dimostra davvero qui che dovremmo trattare la felicità di tutti come ugualmente degna di essere perseguita, o si limita ad affermarlo?
Ammettiamo che l'argomento di Mill sia valido e che il principio di utilità sia la base della moralità. L'utilitarismo sostiene che dovremmo quindi calcolare, al meglio delle nostre capacità, l'utilità attesa che risulterà dalle nostre azioni e come essa influenzerà noi e gli altri, e usarla come base per la valutazione morale delle nostre decisioni. Ma allora potremmo chiederci: come quantifichiamo esattamente l'utilità? Qui ci sono due problemi diversi ma correlati: come è possibile trovare un modo per confrontare diversi tipi di piacere e dolore, beneficio o danno che io stesso potrei sperimentare, e come è possibile confrontare il mio beneficio e quello degli altri su una qualche scala imparziale di confronto? Bentham sostenne notoriamente che esisteva un'unica scala universale che poteva permetterci di confrontare oggettivamente tutti i benefici e i danni sulla base dei seguenti fattori: intensità, durata, certezza/incertezza, prossimità, fecondità, purezza ed estensione. E su questa base offrì quello che chiamò un "calcolo felicifico" come un modo per confrontare oggettivamente due piaceri che potremmo incontrare (Bentham [1789] 1907).
Per esempio, paragoniamo il piacere di bere una pinta di birra a quello di leggere l'Amleto di Shakespeare. Supponiamo che le cose stiano così:
- Il piacere che deriva dal bere una pinta di birra è più intenso del piacere che deriva dal leggere Amleto (intensità).
- Il piacere di bere la birra dura più a lungo di quello di leggere Amleto (durata).
- Siamo sicuri che bere la birra sia più piacevole che leggere Amleto (certezza/incertezza).
- La birra è più vicina a noi della tragedia, e quindi è più facile per noi accedere alla prima che alla seconda (prossimità).
- Bere la birra ha più probabilità di promuovere più piacere nel futuro, mentre leggere Amleto ha meno probabilità di promuovere più piacere nel futuro (fecondità).
- Bere la birra è puro piacere mentre leggere Amleto è mescolato con qualcos'altro (purezza).
- Infine, bere la birra riguarda sia me che i miei amici nel bar e quindi ha un'estensione maggiore della mia lettura solitaria di Amleto (estensione).
Poiché, in base a tutte queste misure, bere una pinta di birra è più piacevole che leggere Amleto, ne consegue, secondo Bentham, che è oggettivamente meglio per voi bere la pinta di birra che leggere Amleto, e così dovreste fare. Naturalmente, spetta a ciascun individuo fare un tale calcolo in base all'intensità, alla durata, alla certezza, ecc. del piacere risultante da ogni possibile scelta che può fare ai suoi occhi, ma Bentham almeno sostiene che un tale confronto è possibile.
Questo ci riporta al problema che abbiamo menzionato prima: realisticamente, non ci si può aspettare che ci impegniamo sempre in calcoli molto difficili ogni volta che vogliamo prendere una decisione. Nel tentativo di risolvere questo problema, gli utilitaristi potrebbero sostenere che nella valutazione della giustezza morale e dell'erroneità morale delle azioni, l'applicazione del principio di utilità può essere rivolta all'indietro (basata sul senno di poi) o in avanti (basata sulla previsione). Cioè, possiamo usare l'esperienza passata dei risultati delle nostre azioni come guida per stimare quali potrebbero essere i probabili risultati delle nostre azioni e risparmiarci l'onere di dover fare nuove stime per ogni scelta che possiamo affrontare.
Inoltre, possiamo chiederci se l'approccio di Bentham non perda qualcosa di importante riguardo ai diversi tipi di risultati piacevoli che possiamo perseguire. Mill, per esempio, risponderebbe alla nostra affermazione che bere birra è oggettivamente più piacevole che leggere l'Amleto obiettando che trascura un'importante distinzione tra tipi di piacere qualitativamente diversi. Secondo Mill, il calcolo di Bentham non tiene conto del fatto che non tutti i piaceri sono uguali — ci sono piaceri "superiori" e "inferiori" che rendono "preferibile essere un essere umano insoddisfatto che un maiale soddisfatto; meglio essere Socrate insoddisfatto che uno stupido soddisfatto" (Mill [1861] 1879, cap. 2). Mill giustifica questa affermazione dicendo che tra due piaceri, anche se un piacere richiede una quantità maggiore di difficoltà per essere raggiunto rispetto all'altro piacere, se coloro che sono competenti in entrambi i piaceri preferiscono (o apprezzano) uno rispetto all'altro, allora l'uno è un piacere superiore mentre l'altro è un piacere inferiore. Per Mill, anche se bere una pinta di birra può sembrare più piacevole che leggere Amleto, se vi vengono presentate queste due opzioni e dovete fare una scelta — ogni volta o come regola — dovreste comunque scegliere di leggere Amleto e rinunciare a bere la pinta di birra. Leggere Amleto genera una qualità superiore (anche se forse una quantità inferiore) di piacere, mentre bere una pinta di birra genera una qualità inferiore (anche se una quantità superiore) di piacere.
Alla fine, questi possono essere solo problemi tecnici affrontati dall'utilitarismo: esiste una scala neutrale di confronto tra i piaceri? Se c'è, è basata sulla scala di Betham che non fa distinzioni tra piaceri superiori e inferiori, o su quella di Mill che le fa? Rimane comunque il problema più serio, ossia il fatto che l'utilitarismo sembra disposto in linea di principio a sacrificare gli interessi e forse anche le vite degli individui per il bene di un gruppo più grande. E questo sembra essere in conflitto con la nostra intuizione morale di base che le persone hanno il diritto di non essere usate in questo modo. Mentre Mill sosteneva che la nozione di diritti poteva essere spiegata in termini puramente utilitaristici, Bentham la respingeva semplicemente. Per lui tali "diritti naturali" sono "semplici sciocchezze, diritti naturali e imprescrittibili, sciocchezze retoriche, sciocchezze su trampoli" (Bentham [1796] 1843, 501).
Conclusione
Concludiamo rivisitando la domanda da cui siamo partiti: il fine può giustificare i mezzi? Ho sostenuto che per quanto riguarda l'utilitarismo la risposta a questa domanda è affermativa. Mentre la risposta è plausibile e giusta per gli utilitaristi, è implausibile per molti altri, e notevolmente sbagliata per i deontologi. Come abbiamo visto in questo capitolo, ad un esame ravvicinato l'utilitarismo è meno persuasivo e meno ragionevole di quanto sembri quando è considerato da lontano.
Riferimenti bibliografici
Bentham J., An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, Clarendon Press, Oxford (1789) 1907. Edizione italiana: Introduzione ai principi della morale e della legislazione, UTET, Torino 2017 (ebook).
Bentham J *Anarchical Fallacies., in The Works of Jeremy Bentham, a cura di John Bowring, vol 2, William Tait, Edinburgh (1796) 1843.
Driver J. ,“The History of Utilitarianism”, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy, ed. Edward N. Zalta, 2014. Url: https://plato.stanford.edu/archives/win2017/entries/utilitarianism-history/
Hooker B., “Rule Consequentialism”, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy, a cura di Edward N. Zalta, 2016. Url: https://plato.stanford.edu/archives/win2016/entries/consequentialism-rule/
Macleod C., “John Stuart Mill”, in The Stanford Encyclopedia of Philosophy, ed. Edward N. Zalta, 2017. Url: https://plato.stanford.edu/archives/spr2017/entries/mill/
Mill J. S., Utilitarianism, Longmans, Green, and Co, London (1861) 1879, settima edizione. Url: https://www.gutenberg.org/ebooks/11224. In italiano: La libertà. L'utilitarismo. L'asservimento delle donne, a cura di Eugenio Lecaldano, Rizzoli, Milano 1999.
Singer P., “Ethics and Intuitions”, in The Journal of Ethics 9 (3/4), 2005, pp. 331-352.
Smart J. J. C., “An Outline of a System of Utilitarian Ethics”, in Smart, J. J. C. and Bernard Williams, Utilitarianism: For and Against, Cambridge University Press, Cambridge 1973.
Altre letture
Hare R. M., Moral Thinking, Oxford University Press, Oxford 1981. Edizione italiana: Il pensiero morale, traduzione di S. Sabattinio, il Mulino, Bologna 1989.
Hooker B., “Rule-Consequentialism”, in Mind 99(393), 1990, pp. 66-77.
Scheffler S., Consequentialism and Its Critics, Oxford University Press, Oxford 1988.
Sen A., Williams B. (a cura di), Utilitarianism and Beyond, Cambridge University Press, Cambridge 1982.
Sidgwick H. 1907. The Methods of Ethics, Macmillan, London 1907.
Singer P., Writings on an Ethical Life, HarperCollins, New York 2000. Edizione italiana: Scritti su una vita etica. Le idee che hanno messo in discussione la nostra morale, Net, Milano 2004.
Smart J. J. C., Bernard Williams B. (a cura di), Utilitarianism: For and Against, Cambridge University Press, Cambridge 1973.
Thomson J. J., “The Trolley Problem”, in The Yale Law Journal 94 (6), 1985, pp. 1395-1415.
Williams B. 1973. “A Critique of Utilitarianism,”, in Smart, J. J. C. and Bernard Williams, Utilitarianism: For and Against, Cambridge University Press, Cambridge 1973.
Note
1 Naturalmente, ci possono essere eccezioni a tale regola in casi particolari e atipici in cui rubare potrebbe portare a conseguenze migliori. Questo solleva una complicazione per gli utilitaristi delle regole: se essi sostenessero che dovremmo seguire regole come "non rubare" tranne nei casi in cui rubare porterebbe a conseguenze migliori, l'utilitarismo delle regole non sarebbe molto diverso dall'utilitarismo degli atti. Si dovrebbero ancora valutare le conseguenze di ogni particolare atto per vedere è il caso di seguire la regola o no. Hooker (2016) sostiene che l'utilitarismo delle regole non deve necessariamente collassare nell'utilitarismo degli atti in questo modo, ma sarebbe meglio avere un insieme di regole più chiare e facilmente comprensibili e seguite rispetto a quelle che ci richiedono di valutare molte possibili eccezioni. ↩
Traduzione di Antonio Vigilante.