Søren Kierkegaard

Ritratto di Søren Kierkegaard ad opera del nipote Niels Christian Kierkegaard, Royal Library, Danimarca, c. 1840. Pubblico dominio.

Indice

La vita

Søren Aabye Kierkegaard nasce nel 1813 a Copenhagen, ultimo dei sette figli di un commerciante che aveva sposato in seconde nozze la sua domestica. Viene educato in un ambiente improntato a un forte rigorismo religioso che, insieme alla morte prematura di alcuni dei suoi fratelli, plasma un carattere malinconico e solitario. Maggiore influenza ha anche, sulla sua personalità, la convinzione che sulla sua famiglia pesi una sorta di maledizione, probabilmente dovuta a un atto gravemente blasfemo compiuto da suo padre in gioventù.

Un evento centrale nella sua vita fu la rottura del fidanzamento con Regine Olsen. Conosciutala nel 1839, il filosofo chiese ufficialmente alla ragazza di sposarlo nel 1840, ma l’anno successivo ruppe il fidanzamento. Una scelta così dolorosa non fu legata a difficoltà nella relazione o a cambiamenti nei suoi sentimenti, ma a ragioni profonde legate alla sua visione filosofica. Sposandosi, avrebbe dato alla sua vita una direzione comune, quella del padre di famiglia; ma la sua via era un’altra: quella della vita religiosa.

Dopo aver seguito per qualche tempo a Berlino le lezioni di Schelling, che trovò insopportabili, si laureò in teologia a Copenhagen con una tesi Sul concetto di ironia in riferimento costante a Socrate. Si dedicò però non professione di pastore luterano ma alla scrittura e alla polemica religiosa. Ottenne grande successo con Aut Aut, la sua opera principale, ma non rinunciò alla sua vita appartata, risultando agli occhi dei suoi contemporanei tanto geniale quanto bizzarro nel suo anticonformismo. Negli ultimi anni pubblicò il periodico L’ora, sule cui pagine sottopose a una critica sferzante il cristianesimo istituzionalizzato nello Stato danese.

Morì nel 1855, a soli quarantadue anni, probabilmente per l’evoluzione di una malattia degenerativa.

Un filosofo senza scuola

Kierkegaard non fu, né volle essere, un filosofo accademico. Non appartenne a nessuna scuola, non legò il suo pensiero a quello di qualche maestro né ebbe discepoli. In lui la pratica filosofica è strettamente legata alla vita, e non tanto alla condizione umana generale, quanto alla sua singola esistenza. Il filosofo danese si concepisce come singolo in polemica con una società di cui non condivide i valori e ai quali si contrappone in nome di un cristianesimo interpretato in modo originale e suggestivo.

Le sue opere riflettono questa impostazione: scritte con uno stile profondamente personale, intimo, a volte frammentario, si collocano agli antipodi dello stile filosofico di Hegel, al quale, come presto vedremo, si contrappone polemicamente. Una caratteristica particolare della sua identità di scrittore è il ricorso sistematico a pseudonimi, quasi maschere dietro le quali agisce la complessità della sua personalità: Johannes de Silentio è l’autore di Timore e tremore, Victor Eremita di Aut Aut, Johannes Climacus delle Briciole di filosofia, Vigilius Haufniensis de Il concetto dell’angoscia.

Contro l’idealismo

Kierkegaard non spende troppe energie per attaccare l’idealismo dominante. Lo liquida piuttosto con l’accusa più dura che si possa rivolgere a una filosofia: quella di essere nulla più che chiacchiera. L’idealismo non è solo falso. È soprattutto una filosofia superficiale, che nulla ha da dire in realtà al singolo, perché non comprende la realtà della condizione umana. L’essenza dell’idealismo è l’ottimismo del borghese che ritiene di poter vivere una vita tranquilla senza dover operare delle scelte. Da questo punto di vista, l’essenza dell’idealismo è l’Aufhebung hegeliana: la convinzione che tutti i conflitti, nella natura, nella storia e nella società, siano destinati ad essere superati dialetticamente in una sintesi superiore. Per Kierkegaard nessuna sintesi invece è possibile. La vita richiede invece la continua e difficile scelta tra possibilità diverse, che si escludono a vicenda e tra le quali non è possibile alcuna conciliazione.

La possibilità e la scelta sono dunque le due categorie centrali della filosofia di Kierkegaard. Esistere vuol dire scegliere sé stessi. Ciò che ci rende umani è la possibilità di essere in modo diverso, di incarnare noi stessi nelle forme più disparate. Ma quale è la scelta giusta? Quale la possibilità di vita più autentica?

Per Kierkegaard il ventaglio delle possibilità non è infinito. Esse si riducono a tre: la vita estetica, la vita etica e la vita religiosa.

La vita estetica

La vita estetica è dedicata interamente al piacere dei sensi. Essa è incarnata per Kierkegaard da Don Giovanni, cui è dedicata l’opera omonima di Mozart. Don Giovanni è alla ricerca di conquiste femminili sempre nuove. Il suo obiettivo è sedurle, abbandonandole subito dopo per passare andare alla conquista di un’altra donna da far propria. Una variante è rappresentata da Johannes, la cui figura è tratteggiata da Kierkegaard nel Diario di un seduttore (che fa parte di Aut Aut). Se la seduzione di Don Giovanni è di carattere fisico e sessuale, quella di Johannes è finalizzata invece al possesso psicologico. Incontrata la diciassettenne Cordelia in un negozio, Johannes si prefigge di conquistarla; per questo mette in atto tutte le più raffinate strategie per legarla a sé. Una volta raggiunta la certezza della sua dedizione,ha raggiunto il suo scopo narcisistico, senza che vi sia alcun bisogno di un rapporto sessuale come compimento della conquista. L’esito è anche in questo caso l’abbandono della persona sedotta, che era solo uno strumento del seduttore.

Kierkegaard mostra con efficacia il fascino della vita estetica, che è non solo nel piacere, ma anche nella sensazione di libertà. Il seduttore non compie mai nessuna scelta e non si pone alcun problema morale, vive per così dire al di qua del bene e del male. Ma questo vivere per il momento è anche la sua condanna. Ogni appagamento è temporaneo, si esaurisce e richiede una nuova conquista, e la ricerca infinita di sempre nuovi appagamenti prima o poi cede alla noia, alla mancanza di senso di una esistenza che non ha alcun centro in sé stessa, ma deriva dalla soddisfazione momentanea data dall’altro.

La vita etica

Si entra nella vita etica nel momento in cui si decide di scegliere. In modo in fondo ancora hegeliano, Kierkegaard intende il soggetto morale non nella prospettiva del conflitto con la società e con il potere in nome dei propri principi morali. La vita etica invece è quella di chi è inserito pienamente nella società, che compie il suo dovere di marito, di padre, di lavoratore. La figura simbolo di questa condizione è, in Aut Aut, il giudice Wilhelm, che in aperto contrasto con l’esaltazione romantica della libertà del desiderio tesse le lodi del matrimonio. Chi si sposa si sottrae alla ripetizione infinita del seduttore e sceglie di essere fedele a una sola persona, anche quando, come inevitabilmente accade, il desiderio non c’è più. Non diversamente da Hegel, Kierkegaard ritiene che la vera libertà non sia quella astratta di chi ha possibilità di scelta senza di fatto scegliere nulla, ma quella concreta di chi ha compiuto una di queste scelte e le resta fedele per tutta la vita; quella di chi si sposa, svolge una professione ed educa dei figli secondo i valori sociali.

Anche questa possibilità di vita tuttavia è insoddisfacente. Del resto, come abbiamo visto, si tratta di una possibilità che Kierkegaard ha rigettato rompendo il fidanzamento con Regine Olsen (comportandosi di fatto, in quella occasione, come un seduttore).

Il bravo padre di famiglia borghese ha, prima di ogni cosa, il senso del dovere; lo stesso amore per la moglie è pensato nell’ottica del dovere. La sua vita si svolge interamente nel cerchio della società. Ma una vita solo sociale non può soddisfarci, perché noi non siamo esseri solo sociali. Apparentemente soddisfatto del suo ruolo, della sua fedeltà, anche del suo successo, l’uomo borghese è in realtà esposto alla disperazione, perché tutte queste cose sono finite e non possono rappresentare una risposta valida al nostro bisogno di assoluto.

A differenza dell’uomo estetico, l’uomo etico ha un io solido, perché scegliendo il suo ruolo sociale ha scelto di dare anche a sé stesso una identità stabile. Ma questa identità è superficiale. Vivendo solo come essere sociale, il giudice Wilhelm nega tacitamente il suo rapporto con qualcosa di più grande. Questa negazione si esprime nella malattia mortale della disperazione, nel senso di vuoto di una vita apparentemente felice, ma che di fatto è sostanziata di conformismo sociale.

La vita religiosa

Si entra nella terza possibilità, quella religiosa, appunto attraverso la porta della disperazione. Cercando, cioè, una verità più profonda dietro la nostra esistenza sociale. Ma se l’ambito sociale è quello della realizzazione del bene, sottrarsi a questo ambito vuol dire sottrarsi alla stessa etica. La vita religiosa, cioè, non è etica; comporta anzi quella che Kierkegaard chiama “sospensione teologica dell’etica”. Si tratta di una verità che il filosofo danese trova nel terribile episodio biblico di Abramo e Isacco. Dio comanda ad Abramo di sacrificare suo figlio Isacco. È un modo per mettere alla prova la sua fedeltà; Dio non vuole che uccida realmente suo figlio, e prima che l’atto sia compiuto un angelo fermerà la sua mano, ma questo Abramo non lo sa. Sa che Dio gli ordina di compiere il crimine più grande possibile. E obbedisce.

La caratteristica dell'etica è la superiorità del generale sul singolo. L'errore morale più grande è l'affermazione di sé stessi. Diventiamo morali nella misura in cui mettiamo da parte noi stessi e ci sacrifichiamo per un fine più alto e più generale. Ciò per Kierkegaard non vale invece per la religione. Scrive in Timore e tremore:

la fede è questo paradosso che il Singolo è più alto del generale però, si badi bene, in modo che il movimento si riprende; il Singolo quindi, dopo essere stato nel generale, ora come il Singolo esso si isola come più alto del generale. (trad. Cornelio Fabro)

Attraverso l’azione morale noi ci inseriamo in un ordine sociale di cui riconosciamo la superiorità rispetto alla nostra persona. La religione ci sottrae a questo ordine e ci pone come singole esistenze in rapporto diretto con Dio. L’essere umano non è una essenza data una volta per tutte; è invece un’esistenza, minacciata costantemente dalla dispersione del mondo e chiamata a scegliere tra diverse possibilità, a decidersi e definirsi.

Il peccato

L’idealismo insegna che l’esistenza dell’uomo è inserita nella più ampia vita dello Spirito, la quale a sua volta non è trascendente, ma fa tutt’uno con la realtà del mondo. Due concezioni, dunque: la conciliazione di finito ed infinito e l’immanenza dello Spirito, ossia di Dio. Per Kierkegaard entrambe le concezioni sono inaccettabili; per dir meglio, costituiscono un peccato. Peccato è per il filosofo danese ogni tentativo di ridurre l’infinito alle dimensioni del finito. Peccato è pensare di poter vivere la propria passione per Dio conducendo una tranquilla esistenza borghese, così come peccato è ricondurre dialetticamente la propria vita al Tutto. Vissuto in un’epoca di grandi cambiamenti storici – i moti del 1848 –, Kierkegaard considera con disprezzo gli ideali di emancipazione sociale e di democrazia, chiudendosi in un conservatorismo al fondo del quale c’è il rifiuto di qualsiasi esaltazione della dimensione storica. Qualunque cosa gli esseri umani realizzino sul piano storico porta il segno del finito, del limite, quando non del peccato.

La polemica contro la Chiesa danese

In rapporto diretto con Dio, il singolo è inevitabilmente in polemica con la società borghese, che sarà dunque composta da persone che sono inconsapevolmente in una condizione di peccato. E lo sono soprattutto in quanto cristiani. La via del Vangelo è una via difficile, una porta stretta riservata a pochi. Nel momento in cui tutti si dichiarano cristiani, è evidente che ciò che credono di praticare ha poco a che fare con il cristianesimo. Il cristianesimo, scrive, “riposa sul pensiero che si è cristiani IN OPPOSIZIONE ad altri, che, come cristiani, si crede e si ama Iddio IN OPPOSIZIONE ad altri”. Ma “nella ‘Cristianità’ invece siamo tutti cristiani; non v’è quindi più opposizione con altri” (L’ora, p. 75; maiuscolo nel testo). Vivere cristianamente in Danimarca (e non solo, naturalmente) vuol dire vivere la propria vita normale, senza alcun particolare sacrificio o inquietudine, curando i propri affari e godendo dei propri piaceri quotidiani. Il cristianesimo ufficiale “è un’elegante e gustosa trovata, che rende, in modo ragionevole, la vita più ricca di quanto se la potevano foggiare i pagani” (ivi, p. 81). Questa vita superficialmente cristiana, di fatto anticristiana, costituisce per Kierkegaard una bestemmia perfino peggiore dell’ateismo. Perché l’ateismo nega Dio, mentre il cristianesimo ufficiale lo ridicolizza:

La più vergognosa offesa che si possa fare a Dio è quella di cui la Cristianità si rene colpevole: DI TRAMUTAR DIO, IL DIO DELLO SPIRITO, IN UNA RIDICOLA CIANCIA; è la forma più antispirituale di quanto mai fece il paganesimo, più antispirituale dell’adorazione di una pietra, di un bue, di un insetto, più antispirituale di tutto ciò che è possibile come antispiritualità, è proprio questo: adorare come Dio una tal razza d’idiota (ivi, p. 54; maiuscolo nel testo)

Il singolo e Dio

La vita religiosa appare caratterizzata dunque negativamente. Il cristiano non è un borghese, non mette il senso della sua vita nei suoi rapporti famigliari e nel suo lavoro; non ripone alcuna speranza nella storia e nel progresso; ed è in opposizione alla società e ai suoi valori. Ma in cosa consiste, in positivo, una vita religiosa? La risposta a questa domanda è resa impossibile proprio dalla dinamica della fede. Sottraendosi alla società e mettendosi in rapporto con Dio in quanto singolo, il cristiano rinuncia alla possibilità di essere compreso da altri. Nemmeno due cristiani possono comprendersi tra di loro, tanto la via verso Dio è personale ed intima. Esteriormente, la testimonianza di questo percorso, che è difficile e privo di qualsiasi certezza di riuscita (la salvezza è una meta niente affatto garantita), è nell’essere rifiutati dalla società, disprezzati, umiliati, perfino perseguitati, secondo l’esempio di Cristo stesso.

 

Bibliografia minima

Opere

L’ora. Atto di accusa al cristianesimo nel regno di Danimarca, traduzione di Antonio Banfi, introduzione di Mario Dal Pra, Newton Compton, Roma 1977.

Sul concetto di ironia in riferimento costante a Socrate, a cura di D. Borso, Guerini e Associati, Milano 1991.

Timore e tremore, a cura di C. Fabro, BUR, Milano 2012 (edizione digitale).

Enten Eller. Un frammento di vita, a cura di A. Cortese, Adelphi, Milano 1976-89, 5 voll.

Aut-Aut. Estetica ed etica nella formazione della personalità, traduzione di K.M. Guldbrandsen e Remo Cantoni, con un saggio introduttivo di Remo Cantoni, Mondadori, Milano 2016 (edizione digitale).

Opere, a cura di C. Fabro, Milano: Piemme, Milano 1995, 3 voll.

Le grandi opere filosofiche e teologiche, a cura di C. Fabro, prefazione di G, Reale, aggiornamento bibliografico e indici di Vincenzo Cicero, Bompiani, Milano 2013.

Studi

Roberto Garaventa, Rileggere Kierkegaard, Ortorthes, Napoli-Salerno 2014.

Marta Mauriello, Soeren Kierkegaard. Una introduzione, Firenze, Clinamen, Firenze 2015.

Umberto Regina, Kierkegaard, La Scuola, Brescia 2014.

Salvatore Spera, Introduzione a Kierkegaard, Laterza, Roma-Bari 2005.

 

Testo di Antonio Vigilante. Licenza CC BY-SA 4.0 International.