Carlo Michelstaedter

Enrico Mreule (a sinistra) e Carlo Michelstaedter (a destra). Pubblico dominio

Indice

La vita

Carlo Michelstaedter nasce a Gorizia nel 1887 in una facoltosa e colta famiglia ebraica (il padre è direttore della filiale goriziana delle Assicurazioni Generali), ultimo di quattro figli. Frequenta lo Staatsgymnasium nella città natale per poi iscriversi all'Istituto di Studi Superiori di Firenze per studiare Lettere. È un periodo di intense letture -- Platone, i presocratici, Tolstoj, Ibsen, Schopenhauer -- e di esperienze artistiche e culturali, ma anche di esperienze dolorose: il suicidio di Nadia Baraden, un'esule russa cui era legato da una profonda amicizia, il breve amore per un compagna di studi, che termina in pochi mesi per l'opposizione della famiglia di lei e, nel 1909, la morte per suicidio a New York del fratello Gino. Fondamentale è anche l'amicizia con Enrico Mreule, che nel 1909 si imbarca per la Patagonia lasciandoli la sua rivoltella (la sua vita singolare è raccontata da Claudio Magris nel romanzo Un altro mare).

Terminati i quattro anni di studi, torna a Gorizia per lavorare alla tesi che gli è stata assegnata. Muore suicida il 17 ottobre 1910, dopo aver inviato la tesi conclusa, col titolo La persuasione e la rettorica.

Pubblicata postuma nel 1913 a cura dell'amico Vladimiro Arangio-Ruiz, la sua tesi di laurea è la sua opera fondamentale. Filosoficamente interessante è anche il Dialogo della salute (1910), mentre le sue poesie non sono prive di valore letterario.

Una vita che è mancanza di vita

La persuasione e la rettorica comincia con l’immagine suggestiva di un peso che pende da un gancio. Tende ad andare verso il basso, ma è trattenuto; se lo si lascia andare è libero di precipitare verso il basso, ma in nessun momento della caduta sarà soddisfatta la sua tendenza a scendere. Se così fosse, non sarebbe più un peso, ossia un corpo che cade verso il basso. In ogni momento il peso avverte la mancanza di un punto più basso, e ciò costituisce la sua natura. “Il peso – scrive Michelstaedter – è a sé stesso impedimento a posseder la sua vita e non dipendere più da altro che da sé stesso in ciò che non gli è dato di soddisfarsi. Il peso non può mai esser persuaso” (La persuasione e la rettorica, p. 40).

Quella del peso è, naturalmente, una metafora della nostra condizione esistenziale. Nella nostra vita al basso verso cui tende il peso corrisponde il futuro: vivere è essere protesi, tendere verso il momento successivo, e dunque mancare costantemente di qualcosa. Questa mancanza ci spinge a fare sempre nuove esperienze, a cercare di possedere le cose, senza che ciò possa però mai accadere, perché noi siamo separati dalle cose. Possiamo salire su una montagna o nuotare nel mare, ma sentiremo solo la differenza e la distanza tra noi e la montagna, tra noi e il mare. E questo vale anche per i rapporti umani. Possiamo cercare noi stessi nella persona amata, ma mai due amanti potranno davvero essere uno: “saranno sempre due, e ognuno solo e diverso di fronte all’altro”, scrive Michelstaedter (ivi, p. 41).

Cerchiamo dunque noi stessi in qualcosa di altro da noi e di futuro, e in questo modo sfuggiamo costantemente a noi stessi. Fin dalle prima pagine della sua tesi Michelstaedter mostra la possibilità di una via alternativa, quella della persuasione. Ma è chiaro fin da subito che si tratta di una via difficile: come se un peso la smettesse di tendere verso il basso.

L’individualità illusoria

La nostra vita dunque scorre nel tempo, è un costante susseguirsi di istanti. In ognuno di questi istanti noi entriamo in contatto con le cose che soddisfano i nostri bisogni e che in quanto tali appaiono buone. Questo cose che sono intorno a noi costituiscono il nostro mondo e al tempo stesso sorreggono la nostra identità. Noi sentiamo di essere qualcuno nella misura in cui siamo in relazione con questo mondo, con questo insieme di cose che ci saziano e sostengono. Michelstaedter chiama illusoria una tale individualità, perché in realtà non c’è alcun reale possesso di sé; il nostro valore e la nostra identità derivano piuttosto dalle cose, dal mondo che ci siamo costruiti intorno e che ci sostiene. Il piacere che proviamo per le singole cose ci dice tu sei, ma presto arrivano altre esperienze a svelarci l’inganno di questa rassicurazione. Vi sono momenti in cui questa trama illusoria che ci sostiene diventa fragile, così come quando, scrive Michelstaedter, si fa buio nella nostra stanza e non riconosciamo più le nostre cose consuete; in questi momenti “il lembo della trama si solleva” (ivi, p. 57) e la vita appare in tutta la sua vacuità. Ciò accade in esperienze negative, come quella del rimorso, della malinconia, della noia, della paura e dell’ira, che mettono a nudo la nostra impotenza, ma anche in quella apparentemente positiva della gioia “troppo” forte: in questo caso abbiamo in un istante tutto ciò che abbiamo sempre desiderato, ma nel momento stesso in cui lo possediamo, ci accorgiamo che non può realmente soddisfarci, e al tempo stesso, avendo posseduto ciò per cui vivevamo, non abbiamo altro da desiderare. In tutti questi casi “interrotta la voce del piacere che le [alla coscienza] dice tu sei – sente solo il sordo mormorio del dolore fatto distinto che dice: tu non sei, mentre pur sempre essa chiede la vita” (ivi, p. 62).

La persuasione

Il terzo capitolo de La persuasione e la rettorica, dedicato alla via della persuasione, si apre con una pagina di grande suggestione. Poniamo, scrive il filosofo, che domani sia la morte. La morte tua, ma anche la morte di tutto ciò che ti rassicura: la patria, gli ideali, Dio stesso. Poniamo che domani sia la fine di tutto. Come sarà la tua vita oggi? Ogni cosa, ora, perde sapore: il miele diventa amaro, il latte acido. Questo accade perché è crollato ciò che rendeva la vita tollerabile, quella forza che il filosofo chiama philopsychia, l’attaccamento inautentico alla vita, dietro la quale c’è il terrore della morte. Tutta la vita degli uomini non è che un tentativo continuo di fuggire la morte, di allontanarla, di fare come se non ci fosse. Al punto tale, scrive Michelstaedter, che “se si fa loro certa la morte in un certo futuro – si manifestano già morti nel presente” (ivi, p. 69). La nostra vita, dunque, non è che paura della morte. Ma questa paura al tempo stesso ci impedisce di vivere realmente. “Chi teme la morte è già morto” (ivi. p. 69).

È qui che si apre la via della persuasione. Chi è persuaso vive interamente nel presente, come se avesse la certezza della morte imminente. Una certezza che nulla gli toglie. Poiché vive in questo momento, la sua vita è qui e non proiettata in un futuro, il fatto che nel futuro sia certa la morte non lo tocca. E ugualmente deve liberarsi da tutti i bisogni, poiché la natura del bisogno è quella di assicurare la continuazione della nostra vita, e dunque di proiettarci verso il futuro. Ogni volta che cerchiamo la soddisfazione di un bisogno stiamo cedendo ad una vita inautentica. E bisogni per Michelstaedter non sono solo il pane e l’acqua, ma anche la famiglia, la patria e Dio. Il persuaso, scrive, “è solo nel deserto” (ivi. p. 70), avendo rinunciato a tutto ciò che rassicura. E poiché, come abbiamo visto, questa cose costituiscono il puntello esteriore della nostra falsa identità, rinunciare ad esse vuol dire rinunciare a una tale falsa identità e giungere al pieno possesso di sé stessi. Si tratta di una via che comporta solitudine e sofferenza, almeno fino a quando il persuaso non sia diventato capace di creare da sé la luce nel buio:

Solo, nel deserto egli vive una vertiginosa vastità e profondità di vita. Mentre la philopsychia accelera il tempo ansiosa sempre del futuro e muta un presente vuoto col prossimo, la stabilità dell’individuo preoccupa infinito tempo nell’attualità e arresta il tempo. Ogni suo attimo è un secolo della vita degli altri – finché egli faccia di sé stesso fiamma e giunga a consistere nell’ultimo presente. (Ivi, p. 89)

La rettorica

Pochi sono capaci della via della persuasione. I più, dopo aver avvertito la morsa del negativo, cercano di affermare la loro individualità seguendo un’altra via, più facile e rassicurante: quella della rettorica. Sulla via della rettorica gli uomini vivono come se possedessero la persuasione, pur di fatto non possedendola. Fingono allora di possedere dietro la persona contingente una persona assoluta, un’anima immortale, e un sapere con il quale pretendono di conquistare un assoluto nella loro vita quotidiana. Se la via della persuasione è solitaria, quella della rettorica è sociale. La nostra incerta individualità è confermata dagli altri. Non sono più le cose, ora, a rassicurarci, ma è la società:

[…] cerca ognuno la mano del compagno e dice: “io sono, tu sei, noi siamo”, perché l’altro gli faccia da specchio e gli dica: “noi siamo, noi siamo, perché sappiamo, perché possiamo dirci le parole del sapere, della conoscenza libera e assoluta”. – Così si stordiscono l’un l’altro. (Ivi, p. 99)

Socialmente, gli uomini costruiscono un sapere sul mondo che dà loro un rassicurante senso di libertà intellettuale e la convinzione di partecipare, grazie al pensiero e alla conoscenza, alla dimensione divina dell’Assoluto. A questo sistema di classificazioni corrisponde un sistema di parole e di nomi, che “tappezza di specchi la stanza della miseria individuale” (ivi, p. 101) che appaiono in tutta la loro miseria a chi è realmente persuaso. Chi è nella persuasione non può usare i nomi, le parole, i segni comuni, perché la sua via è diversa da quella di chiunque altro; non può usare un linguaggio già disponibile: “la lingua non c’è ma devi crearla, devi crear il mondo, devi crear ogni cosa; per aver tua la tua vita” (ivi, p. 103). Da questa convinzione scaturisce l’uso stesso che del linguaggio fa Michelstaedter ne La persuasione e la rettorica, a partire dai due termini chiave presenti nel titolo.

L’organizzazione sociale diventa ora il nostro mondo rassicurante:

La società mi prende, m’insegna a muover le mani secondo regole stabilite e per questo povero lavoro della mia povera macchina mi adula dicendo che sono una persona, che ho diritti acquisiti per solo fatto che sono nato, mi dà tutto ciò che m’è necessario e non solo il puro sostentamento ma tutti i raffinati prodotti del lavoro altrui; mi dà la sicurezza di fronte a tutti gli altri. (Ivi, p. 150)

Questa sicurezza è naturalmente illusoria. Da un lato questa identità sociale è in realtà figlia del conformismo, dell’adeguarsi al sentire e al pensare comune e di un’educazione che fin dalla più tenera infanzia spegne ogni reale senso di individualità, dall’altro dietro questo ordine sociale apparentemente felice c’è la violenza dell’uomo sull’uomo. In quanto membro della società, ognuno deve seguire i suoi obblighi, compiere il suo lavoro, riconoscere i diritti di proprietà di alcuni. Dietro ogni proprietà c’è in realtà la violenza dell’uomo sull’uomo che è una estensione della violenza sulla natura. Dopo aver trasformato la natura a suo vantaggio, addomesticando gli animali utili e uccidendo quelli commestibili, l’uomo si volge all’altro uomo per sottomettere anche lui, per ottenere da un lato il diritto di sfruttare in modo esclusivo la natura e dall’altro quello di sfruttare il suo stesso lavoro. Questa proprietà grazie alla società diventa un diritto la cui inviolabilità è garantita dalla legge.

Una tale situazione di radicale ingiustizia sociale che è sotto la cappa rassicurante della rettorica per Michelstaedter non è attenuata dal progresso tecnologico. Accade invece il contrario. Più la tecnica si evolve, più la macchina sociale si fa complessa, meno si afferma l’individuo. “Tutti i progressi della civiltà sono regressi dell’individuo”, afferma (ivi, p. 156). Più lavorano le macchine, meno lavora il nostro corpo; e meno lavora, meno cose è in grado di fare. Le capacità individuali regrediscono man mano che la tecnologia evolve. Man mano che la macchina sociale si fa più complessa, al singolo non si chiede altro che si compiere il suo piccolo compito sociale, senza guardarsi intorno; gli è tolto interamente il senso di responsabilità. Il grande sistema di rassicurazione reciproca porta a una macchina sociale quasi perfetta, nella quale ognuno recita silenziosamente la sua parte.

Questa denuncia della deresponsabilizzazione legata alla società di massa appare nell’ebreo Michelstaedter quasi profetica: la sua massima espressione nel Novecento si avrà con i campi di sterminio nazisti. E ad Auschwitz moriranno sia la madre Emma Luzzatto che la sorella Elda.

Bibliografia minima

Opere

La persuasione e la rettorica, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1982.

Il dialogo della salute e altri dialoghi, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 1988.

La melodia del giovane divino. Pensieri, racconti, critiche, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 2010.

Poesie, a cura di Sergio Campailla, Adelphi, Milano 2021.

Studi

Alessandro Arbo, Carlo Michelstaedter, LEG, Gorizia 2022.

Giorgio Brianese, L'arco e il destino. Interpretazione di Michelstaedter, Mimesis, Udine 2009.

Sergio Campailla, Un'eterna giovinezza: Vita e mito di Carlo Michelstaedter, Marsilio, Padova 2019.

Gabriella Putignano, L'esistenza al bivio. "La persuasione e la rettorica" di Carlo Michelstaedter, Stamen, Roma 2015.

Thomas Vasek, Heidegger e Michelstaedter. Un'inchiesta filosofica, Mimesis, Sesto San Giovanni 2021.

Testi

Nessuna vita è mai sazia

Il sapore

Lo sguardo dei bambini

Il sapere

Vedere ogni presente come l'ultimo

Focus

Un suicidio filosofico?

 

Testo di Antonio Vigilante. Licenza CC BY-SA 4.0 International.