Kṛṣṇa insegna ad Arjuna la Bhagavadgītā. Pubblico dominio.

La Bhagavadgītā

Indice

Il problema della Gītā

Paragonabile ai poemi omerici, sia per la bellezza che per l'importanza che ha avuto nella civiltà indiana, il Mahābhārata è con i suoi settantacinquemila versi il poema epico più imponente della letteratura mondiale. Attribuito a Vyāsa, personaggio mitico prototipo del veggente, il poema è stato composto e tramandato oralmente nell'arco di più secoli, giungendo alla sua forma definitiva nel quarto secolo d.C. Narra la lotta leggendaria tra due clan imparentati tra di loro, i Kaurava e i Pāṇḍava, per il possesso del trono; una lotta che assume anche un valore simbolico, poiché i Kaurava hanno tratti negativi e i Pāṇḍava incarnano la verità e la giustizia.

La Bhagavadgītā (Canto del Beato, nota anche semplicemente come Gītā) è un episodio del poema, che viene letto separatamente e per il grande valore filosofico e religioso è diventato per gli indiani l'equivalente del Vangelo per i cristiani, diffuso anche al di fuori della casta sacerdotale e fonte di ispirazione anche popolare fin dall'antichità.

L'episodio della Bhagavadgītā si colloca alla vigilia della lotta finale tra i due clan. Il guerriero Arjuna, tra i principali eroi dell'esercito dei Pāṇḍava, guarda l'esercito nemico schierato ed è preso dallo sconfonto. Si sta apprestando a combattere contro i suoi parenti, amici e maestri. Ma che senso ha una guerra simile? Non sarebbe meglio essere sconfitti che vincere e uccidere in guerra i membri della propria stessa famiglia? Con lui è Kṛṣṇa, che guida il suo carro e lo consiglia, mostrandogli nel corso del Canto la verità suprema, la cui conoscenza consentirà all'eroe di uscire dall'incertezza e compiere il suo dovere di guerriero. Gli espone quindi la dottrina del Samkhya, che presenta come strettamente unita allo Yoga (V, 4), toccando la questione fondamentale del karma.

Lo Yoga dell'azione

Uccidere è un'azione evidentemente impura, che produrrà effetti negativi nelle esistenze successive. Ma, afferma Kṛṣṇa, non è possibile liberarsi dall'azione. Ogni essere vivente è condannato ad agire, l'inazione è impossibile. Piuttosto che non agire è necessario agire in modo che l'azione non produca effetti karmici negativi. Questo è possibile solo se si agisce senza nessun attaccamento, ossia senza curarsi del frutti dell'azione. Questo è il Karma Yoga insegnato dalla Bhagavadgītā: le azioni umane sono pure se vengono compiute senza preoccuparsi dei loro frutti, senza alcuno scopo egoistico, solo per compiere il proprio dovere e in spirito di abbandono al Divino. In questo modo un guerriero come Arjuna può agire, adempiendo il dovere della sua casta, senza che questa azione lo contamini. In questo modo, come ha notato Raniero Gnoli, lo Yoga “non è più possesso esclusivo degli asceti, dei ritirati dal secolo, della casta sacerdotale, ma patrimonio comune di tutti gli uomini che si sforzano di agire nel mondo, perseguendo un ideale di giustizia e di pietà”. L’azione così compiuta, nella sua purezza, si sovrappone all’atto sacrificale della tradizione vedica; non solo l’azione compiuta secondo i rigidi rituali vedici, ma qualsiasi azione compiuta in spirito di abbandono a Dio acquista un significato cosmico e religioso.

La manifestazione di Dio

Ma la Gītā, testo ricchissimo e denso, non contiene solo questo insegnamento sulla liberazione dell’azione, che pure ne è l’aspetto centrale. Nel corso dell’opera Kṛṣṇa depone la sua apparenza umana e si manifesta come Dio stesso, avatar, ossia incarnazione, di Viṣṇu. L'undicesimo canto contiene pertanto una vera e propria descrizione di Dio, così come si manifesta ad Arjuna. Non si tratta di una manifestazione rassicurante: all'eroe Kṛṣṇa si manifesta come un essere terribile, con infinite bocche, braccia e zanne, la cui visione fa tremare i mondi e nelle cui fauci entrano, per essere divorate, intere legioni di eroi. Questo essere terribile al tempo stesso si presenta come il garante della giustizia nel mondo: quando nella storia l'ingiustizia rischia di prevalere sulla giustizia, Kṛṣṇa si incarna storicamente e interviene direttamente per ristabilire il giusto dharma. Da un lato, dunque, l’azione umana può diventare libera se affrancata da ogni scopo utilitaristico ed egoistico; dall’altro, è Dio stesso che interviene nel mondo per sostenere l’azione di coloro che cercano di combattere il male e far trionfare la giustizia. Una idea che ha avuto un effetto decisivo sulla visione del mondo indiana e che ha influenzato anche il pensiero e la prassi politica di Gandhi.

Bibliografia minima

Il Canto del Beato (Bhagavadgītā), a cura di Raniero Gnoli, UTET, Torino 1991.

Sri Aurobindo, Lo Yoga della Bhagavadgītā, Mediterranee, Edizioni Roma 1969.

La Bhagavad-gita così com'è, trad. dal sanscrito di A.C. Bhaktivedanta Swami Prabhupada, Bhaktivedanta Book Trust 1976 (e successive ristampe).

Testi

"I saggi non piangono né per i vivi né per i morti"
Lo Yoga dell'azione